Ma dopo l’approvazione del reddito di cittadinanza, che ci stiamo a fare in politica?”. Questa, in sintesi, la riflessione di una deputata Cinque stelle con cui mi è capitato di parlare qualche tempo fa. Domanda legittima.

In questo fine settimana il Movimento celebra i suoi tormentati Stati generali, una specie di congresso che doveva tenersi prima della pandemia, poi sempre rinviato.

I nemici dei Cinque stelle sono i più eccitati dalla metamorfosi: finalmente anche i “grillini” diventano un partito normale, finalmente si spaccano in correnti, violano le loro stesse regole interne per legittimare i rapporti di forza (con il “mandato zero”, tre mandati diventano due), hanno i primi condannati, qualche imputato, sono in politica da abbastanza tempo da aver tradito le loro promesse, dal Tap in Puglia al Tav a Torino, sono parte di una maggioranza parlamentare che ha ppena votato un emendamento salva-Mediaset… 

Ma i Cinque stelle restano il primo partito in parlamento e, per quanto in crisi in tutte le elezioni locali, non sembrano destinati alla rapida scomparsa e - dettaglio rilevante - esprimono il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Quindi, tornando alla domanda iniziale, a cosa servono ancora i Cinque stelle?

Sono un’espressione di quel populismo “di sinistra” che non ha funzionato in Europa, per due ragioni: ha bisogno di una quantità di spesa pubblica incompatibile con la tenuta dei bilanci e con una banca centrale indipendente; se la prende con la minoranza più ostica (l’establishment) invece che con quella più fragile (i migranti). 

Incassata la vittoria simbolica e di sostanza sul reddito di cittadinanza, approvato un anno e mezzo fa, il Movimento si è perso, ha inseguito prima la Lega nelle derive xenofobe di Matteo Salvini, poi ha cercato di scimmiottare il Pd nel presentarsi come forza tranquilla del buongoverno (e sul modello che cerca di imitare si possono avanzare dubbi). 

Dopo aver deciso, con gli Stati generali, le sue regole interne dovrà cercare un senso: le posizioni radicali sull’etica e la visione francescana della politica sembrano incompatibili con la permanenza nell’area di governo, desiderata da tutti, o almeno da tutti i parlamentari. Che fare dunque? 

Ci sono due strade non battute. Una è l’ambientalismo radicale e  internazionalista di Greta Thunberg, che i Cinque stelle non hanno mai capito e non si sono mai intestati - sono fermi a quello della generazione precedente, localistico, che vagheggia la decrescita. Oppure una lotta serrata alle disuguaglianze che non passa più per l’elargizione a pioggia di risorse ma per una battaglia contro rendite, privilegi e abusi di caste ben più potenti di quella parlamentare che hanno scardinato in questi anni, anche con il referendum vinto sul taglio dei parlamentari. 

Senza una missione chiara, ai Cinque stelle resterà soltanto quella parte di voto di protesta che durante l’esperienza di governo si è trasformato in voto clientelare.

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