Novecentonovanatre, tra le altre proprietà, è un numero naturale, è un numero dispari, è un numero composto con quattro divisori (1,33,331,993). Poiché la somma dei suoi divisori escluso se stesso è minore dello stesso 993, è anche un numero difettivo. Alla voce che Wikipedia Italia riserva ai numeri naturali bisognerebbe aggiungere che 993 è il numero delle persone morte di Covid in Italia l’altro ieri, il 3 dicembre 2020. Sarebbe una forma di memoria, e una possibilità laica di rito.

Sarebbe anche conseguente alla narrazione dello stato di guerra nel quale ci hanno immerso le comunicazioni. Al milite ignoto si dedicano targhe e steli. E per questi morti ignoti anche alle loro stessi affetti – qualsiasi essi siano, dovunque essi siano – a questa dismissione giuridica ed emotiva dell’habeas corpus, cosa facciamo? Come facciamo a ricordarcelo, e dunque a ricordare loro.

Novecentonovantatre è un numero che, letto insieme agli altri (all’indice di contagio abbassato, alle ospedalizzazioni, in terapia intensiva e no, in calo) pare meno spaventoso nonostante, ripeto, sia il più alto dall’inizio dell’emergenza pandemica.

Mi sono chiesta perché invece questo numero – proprio a me che vado dicendo da mesi sempre che i numeri devono essere letti in un contesto – mi abbia spaventato.

Se la natura della mia paura fosse matematica – la vertigine mentre penso a 993 – legata a  una forma di superstizione, o se quel numero, invece, mi confermasse il mio essere in vita. Mi ha spaventato perché ho pensato «Sono viva», e mi sono sentita prima egoista, e  poi ancora in pericolo, perché la pandemia non è finita. E forse per questo – oltre che per il sollievo dell’abbassamento dell’indice di contagio – abbiamo seguito la conferenza stampa sul nuovo Dpcm, accalorandoci su questioni frivole riguardanti il Natale o il cenone di Capodanno.

Forse questo siamo diventati – forse lo sono diventata, io – persone che per non vedere i morti, pensano alla vita e alle sue faccende. Anche a una vita rappresentata come una vicenda di mero consumo, anche un racconto di vite che somigliano alle pubblicità del Mulino Bianco in un paese fatto da industrie dove nessuno va a scuola e dunque un paese fatto di industrie che però è anche un paese dei balocchi, dove tutti verremo prima o poi mutati in asini che tirano carretti. Essere ancora vivi è un sentimento che in narrativa italiana ha descritto magnificamente Margaret Mazzantini ne Il catino di Zinco (Marsilio, 1994, ora Mondadori) quando muore Antenora, la protagonista, e la prima sensazione che ha la nipote vedendola morta, è quella di essere viva. Ancora viva.

Dunque forse la matematica con i suoi contesti necessari e la politica con i suoi decreti cavillosi e pieni di eccezioni che rivelano l’incapacità di pensare al futuro e a governare il presente, non sono sufficienti ad analizzare né logicamente né emotivamente quel novecentonovantatre. Forse bisogna riprendere in mano i romanzi, aggiungerli alla matematica e alla politica, forse bisogna smettere di cercare spiegazioni, e tentare di capire e farlo come sempre gli esseri umani hanno capito: perché hanno raccontato o perché qualcuno ha raccontato loro.

I verbi raccontare e contare si rassomigliano per suono e per forma (raccontare è verbo transitivo derivato di contare, col prefisso ra-) entrambi hanno a che fare con il tempo.

Ecco, credo da ieri l’altro, o comunque è da ieri l’altro che sono riuscita a formularlo, che abbiamo bisogno del tempo non solo per contare i morti, ma per raccontarli.

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