Mai nella storia della Repubblica italiana è stato così evidente lo scarto tra le sfide drammatiche che attendono il paese – salvare un sistema produttivo in rovina, affrontare una crisi energetica epocale, combattere le ineguaglianze crescenti, evitare che degeneri il conflitto civile – e l'inadeguatezza dell'offerta politica. 

Sul breve termine, un male minore sicuramente verrebbe dal contenimento di una destra sempre più aggressiva, che ha dichiarato guerra alle minoranze e sa proporre soltanto un'inefficace ideologia del risentimento. Fare opposizione a un ipotetico governo Meloni sarà necessario, ma assolutamente non sufficiente. 

Il fallimento della politica

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Sul più lungo periodo, facciamo fatica a credere che l'attuale Partito democratico sia in grado di raccogliere le sfide che decideranno il futuro del paese nel prossimo mezzo secolo.

Il problema non è nei programmi elettorali, palliativi o catartici, ma nel fitto garbuglio di rigidità istituzionali, vincoli finanziari, pressioni internazionali, poteri locali che ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio quanta poca presa la volontà politica, qualunque essa sia, abbia ormai sulla realtà.

Mai nella storia della Repubblica italiana è stato così evidente che la rivoluzione di cui abbiamo bisogno non passerà dalle urne. Né sembrano esserci, evitiamo ogni ambiguità, le condizioni per qualche sollevazione. Nessun incrociatore Aurora ancorato davanti al Palazzo d'Inverno e nessun Palazzo d'Inverno da assaltare.

Alla società civile non resta che attrezzarsi per sopperire al fallimento della politica. Votare continua a essere indispensabile nella logica del male minore; ma non basta. È tempo di cominciare a elencare i compiti che adesso spettano a noi. Non si tratta più di “fermare il declino”, ormai compiuto, bensì di cominciare a mettere le basi del mondo di dopo. Ma sulle base di quale visione del mondo e della storia?

No al progresso, no alle destre

Se la sinistra sventola ancora la bandiera del progressismo, suona strano sentire questa parola nel 2022, dopo quello che abbiamo visto e appreso della storia del progresso, che è anche la storia brutale dell'imperialismo euro-americano oltre che della violenza assimilatrice dei nazionalismi. E suona strano sentire ancora parlare di progressismo di fronte a una crisi ambientale che dall'ideale di progresso, portato dall'ascesa di una classe media ingorda di risorse, è stata prodotta. 

È vero che oggi nelle democrazie occidentali, sul breve termine, a minacciare la maggioranza della popolazione - una maggioranza composta da varie minoranze - sono le politiche intolleranti e inegualitarie delle destre: contrastarle è una priorità. Ma davvero questa lotta può essere condotta in nome del progressismo? E se no, allora in nome di cosa?

Cominciamo dalla prima domanda. Parlare ancora di progresso, innanzitutto, implica una visione lineare ed evolutiva della storia. Chi volesse continuare a difendere questa visione, per coerenza dovrebbe allora riconoscere come tratti arcaici da debellare quelli portati dalle minoranze culturali. Ma questo approccio assimilazionista non può più appartenere alla sinistra; anzi caratterizza oggi la destra estrema di un Éric Zemmour. Non è un caso che, dietro la loro patina tradizionalista, i movimenti suprematisti (si pensi ai seguaci della teoria della “grande sostituzione”) abbiamo sostanzialmente a cuore la difesa dei valori dell'occidente liberale contro le pratiche antimoderne del comunitarismo islamico. 

Invece la società multiculturale è un multiverso nel quale coesistono differenti ontologie e piani temporali, non una linea storica univoca che possa essere imposta a tutti con la forza. La forza modernizzatrice, ad ogni modo, le potenze post-industriali non ce l'hanno più: l'hanno esaurita assieme al loro ciclo di espansione.

Parlare ancora di progresso, inoltre, implica la sottovalutazione del costo ecologico della modernizzazione degli ultimi due secoli. Se la democrazia degli antichi si è fondata sullo sfruttamento degli schiavi, quella dei moderni oltre alla schiavitù nelle colonie - che le ha garantito l'accumulazione originaria per finanziare i primi investimenti - ha tratto beneficio dall'abbondanza di fonti energetiche, che hanno sostituito la forza-lavoro, rendendo prima pensabile e poi possibile una società fondata sull'uguaglianza formale. Lo sfruttamento umano non è cessato, ma è stato mediato dalla divisione internazionale del lavoro e occultato dalla tecnologia.

Il progresso ha così svolto una funzione essenzialmente ideologica di mascheramento dei reali rapporti di produzione. Cosa succede a questa società quando scompaiono i nostri “schiavi energetici”, vengono meno le risorse, si ferma l'espansione, si rallenta lo sviluppo, si complica lo sfruttamento della forza-lavoro, ovvero quando la modernizzazione appare sempre più costosa rispetto ai suoi benefici? La società semplicemente non riesce più a garantire le rendite e i profitti con cui finanziava - mediante lo “sgocciolamento” o la ridistribuzione della ricchezza - il godimento sostanzialmente ineguale dei diritti formalmente universali di cui è fatto il suo “progresso”.

Nuovi valori 

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Liquidato il progressismo, è necessario fondare la sinistra su nuovi valori, diametralmente opposti a quelli della destra contemporanea. Possiamo proporne due. Il primo è la tolleranza, rivolta contro chi semina divisioni e lavora per trasformare la società civile in guerra civile. Il secondo è l'equità, che in modo più trasparente del concetto di giustizia indica la necessità di ottenere una più equa ripartizione delle risorse naturali e dei frutti del lavoro. Su questi due valori è forse possibile costruire un nuovo patto sociale in grado di infondere legittimità nelle nostre istituzioni esangui.

Può questo essere fatto dietro la maschera del progresso? La retorica rassicurante della “transizione verde” lo lascia credere, ma prestissimo - quando capiremo il costo necessario di questa necessaria transizione, che sarà semmai una rivoluzione - l'inganno apparirà in piena luce. Per allora bisognerà farsi trovare pronti con un immaginario più radicale. Proviamo a fornire tre piste ulteriori su cui lavorare.

Compiti giganteschi

Foto Michele Nucci/LaPresse 25 Dicembre 2021 - Bologna, Italia - cronaca nella foto: Pranzo di Natale per poveri persone indigenti e bisognosi alla chiesa della SS Annunziata Sant’Egidio con cardinale Matteo Zuppi Photo Michele Nucci/LaPresse December 25, 2021 - Bologna, Italy - news in the pic: Christmas lunch for poor destitute and needy people at the church of SS Annunziata Sant’Egidio with Cardinal Matteo Zuppi

Primo, si tratterà di predisporre o rafforzare le infrastrutture utili a garantire socialità, protezione, riconoscimento delle persone al di fuori dai servizi erogati da uno Stato già sovraccarico di funzioni. È quello che già fanno le comunità religiose per le minoranze, o in più piccolo le associazioni, i sindacati e i centri sociali.

Secondo, bisognerà impegnarsi nella revisione di quei valori che non svolgono più la loro fondamentale funzione d'integrazione e coesione: istituire cioè nuovi immaginari sociali capaci di guidare e ispirare, nell'ottica di affrontare sia drastiche riforme dello stile di vita che eventuali incrinature della pace civile. L'immaginario liberale, fondato sull’abbondanza borghese, è sempre più inadeguato; ma alle seducenti ideologie nostalgiche promosse dalle destre è necessario opporre, come si diceva, un nuovo immaginario tollerante ed equo.

Terzo, abbiamo una responsabilità di trasmissione del patrimonio scientifico e culturale che abbiamo ereditato. Lo storico Arnold Toynbee parlava di “crisalidi” per definire forme sociali come ad esempio i monasteri alla fine dell'antichità classica, capaci di attraversare la fine di una civiltà per impollinarne una nuova (in quel caso il Medioevo cristiano). Questi moderni monasteri esistono già, in ogni comunità politica e intellettuale che custodisce una tradizione di saperi, di pratiche, di codici, di lotte.

Sono compiti giganteschi. Ma infinitamente più “politici” di qualsiasi elezione, la cui sola promessa a questo punto è di fare durare un po’ più a lungo un fragile compromesso che prima o poi dovrà essere abbattuto. La politica ha fallito: al tramonto del mondo di ieri, ora si tratta di ripartire dalla società civile per creare le condizioni per il mondo di dopo.

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