Proviamo gaberianamente a partecipare alla fiera degli slogan facili da portare a singolar tenzone: abolire il Concordato è di sinistra? In tanti lo hanno sostenuto in questi giorni, molti hanno visto nell’abolizione dei privilegi concordatari un possibile ritorno a un modello egalitario che possa trattare persone e organizzazioni religiose allo stesso modo. Ma sappiamo bene che mettere mano al complesso accrocchio italiano, che si regge in parte su leggi approvate addirittura nel 1929, è particolarmente complesso. Inoltre, non sembra esserci la volontà politica di impegnarsi in un’impresa del genere.

Eppure, la battaglia anticoncordataria ha generato simpatie non sospette in altri tempi. Nel lontano 2006 la rivista di cultura politica Ideazione, sicuramente non di simpatie progressiste, pubblicava un articolo di Kishore Jayabalan, direttore dell’Acton Institute di Roma, dal titolo “Serve ancora il Concordato?”.

Nell’articolo Jayabalan sottolineava alcuni problemi del regime concordatario italiano, ovvero un modello in cui vengono offerte garanzie a una chiesa maggioritaria che però rischia di assopirsi sui privilegi acquisiti e di cullarsi in una rendita di posizione in quanto «la predominanza di un gruppo religioso sanzionata dallo stato potrebbe anche rendere questo gruppo incapace di formulare tesi che convincano chi non appartiene a quella fede specifica». Jayabalan nella sua analisi offriva anche ulteriori indicazioni: «Con la crescita dell’immigrazione e la diminuzione del tasso di crescita in tutta l’Europa (e fra i più bassi nell’Europa cattolica), il sistema concordatario potrebbe in realtà avere impedito la capacità della chiesa di affermare la sua posizione nelle società pluralistiche, e potrebbe non essere il migliore per il futuro».

Il modello a cui Jayabalan guardava con fiducia era quello del Primo emendamento statunitense, un ordinamento che non conosce concordati o intese con le confessioni religiose, ma sulla base di una distinzione fra stato e gruppi religiosi garantisce un mercato delle fedi che genera religioni innovative che poi si diffondono in tutto il mondo.

Certo, questo modello ha contribuito anche a generare estremismi religiosi, ma assistiamo a sviluppi analoghi anche in paesi con chiese di stato. Il modello europeo si è invece quasi sempre basato sulla tutela degli insider, a livello nazionale ove possibile o addirittura a livello europeo quando l’articolo 17 del Trattato di Lisbona ha cristallizzato nella sua formulazione il contenuto della Dichiarazione 11 annessa al Trattato di Amsterdam del 1996, con cui si era provato ad evitare ingerenze del diritto dell’Unione europea nelle materie relative alla condizione giuridica dei gruppi religiosi. Lo sforzo fu quello si bloccare ogni possibile tentativo di scardinamento degli assetti acquisiti a livello nazionale.

È uno sforzo che in larga parte è riuscito, ma incontra sempre più difficoltà nell’opporsi all’avanzata del diritto antidiscriminatorio e nel complesso bilanciamento con i molteplici nuovi diritti che vengono riconosciuti dal potere giudiziario.

Ma un sistema fondato sul riconoscimento di rendite di posizione per i gruppi maggioritari ha fatto bene alla chiesa cattolica? Ne ha stimolato la vitalità e la popolarità fra i fedeli? I dati sulla secolarizzazione rampante sembrerebbero suggerire il contrario. Oltre ai dati lo suggeriscono anche i modelli che utilizzano un approccio economico al mercato delle fedi.

Sul tema un classico resta il contributo di Michael McConnell e Richard Posner dal titolo An economic approach to issues of religious freedom pubblicato nel 1989 dalla University of Chicago Law Review. Se questo non bastasse, c’era anche qualcun altro che si interrogava sulla vitalità del modello statunitense, un contesto che ha visto la chiesa cattolica passare da istituzione discriminata a istituzione produttrice di classe dirigente e fermamente ancorata nell’establishment del paese.

La posizione di Ratzinger

Il 15 aprile 2008 Benedetto XVI rilascia un’intervista sull’aereo che si sta dirigendo negli Stati Uniti in occasione di un viaggio apostolico. Il papa ha modo di sottolineare tutto il suo interesse per il modello statunitense di relazioni fra stato e gruppi religiosi: «Quanto trovo io affascinante negli Stati Uniti è che hanno incominciato con un concetto positivo di laicità, perché questo nuovo popolo era composto da comunità e persone che erano fuggite dalle chiese di stato e volevano avere uno stato laico, secolare che aprisse possibilità a tutte le confessioni, per tutte le forme di esercizio religioso.

Così è nato uno stato volutamente laico: erano contrari a una chiesa di stato. Ma laico doveva essere lo stato proprio per amore della religione nella sua autenticità, che può essere vissuta solo liberamente. E così troviamo questo insieme di uno stato volutamente e decisamente laico, ma proprio per una volontà religiosa, per dare autenticità alla religione».

Benedetto XVI ribalta il tavolo. Lo stato laico serve alla religione affinché quest’ultima recuperi la sua forza vitale e sia capace di incidere nella società: «Questo mi sembra un modello fondamentale e positivo (…) il modello fondamentale mi sembra anche oggi degno di essere tenuto presente anche in Europa». Anticoncordatari che non ci aspetteremmo.

 

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