La pandemia ci costringe a ripensare al valore del tempo. In termini monetari, oltre che filosofici. Quanto vale un mese di ritardi nelle vaccinazioni? Ha senso investire ora per diventare autonomi nella produzione di vaccini? Se gli Stati Uniti, che per tutto il 2020 hanno avuto una situazione più critica di quella europea, ora si preparano a uscire dalla crisi meglio di noi è perché hanno dato al tempo un valore diverso.

A maggio 2020, quindi ancora con Donald Trump al potere, hanno lanciato la Operation Warp Speed: sussidi sia alle fasi di trial delle case farmaceutiche, per accelerare le ricerche, sia a tutto l’indotto per rimuovere i colli di bottiglia nella produzione prima ancora che ci fosse qualcosa da produrre.

Centinaia di milioni di dollari in gran parte a vuoto, perché alcune aziende beneficiarie (come Sanofi) oggi non hanno un vaccino pronto e approvato. Ma la lungimiranza ha comunque pagato: oggi 89,6 milioni di persone hanno avuto almeno una dose, 48,6 sono completamente immunizzate. Le dosi somministrate nel complesso sono 136 milioni.

L’Unione europea ha avuto un altro approccio, nella trattativa con le società farmaceutiche sembra aver prevalso il timore che l’acquisto di vaccini generasse troppi profitti. Ci siamo preoccupati di limitare i benefici per i privati invece che massimizzare quelli per la società. Risultato: nell’Ue abbiamo somministrato, in tre mesi, 62 milioni di dosi, le persone immunizzate sono soltanto 18,2 milioni. Andiamo più piano, dicono da Bruxelles, ma andrà tutto a posto.

Secondo uno studio pubblicato su Science, prima firma di Juan Camilo Castillo, investire oggi per aumentare di un miliardo la produzione mondiale di vaccini potrebbe accelerare l’immunizzazione completa a livello globale di quattro mesi rispetto alle attese di oggi (fine 2022). Questo significa, nelle stime, che ogni dose comporta un beneficio netto per la collettività tra i 576 e i 989 dollari. Cifre che fanno impallidire i prezzi di acquisto, tra i 6 e i 40 dollari. Detto in altro modo: ogni mese di pandemia costa all’economia mondiale 1000 miliardi di dollari, di danni economici e sociali.

Tutto questo per dire che il nostro mondo è così interconnesso che qualunque soluzione sovranista, per quanto appagante nell’immediato, non risolve nulla. Fermare l’esportazione di vaccini non basta, anche se fa arrabbiare che dall’Ue siano usciti in tre mesi 77 milioni di vaccini a fronte di 88 consegnati. Come ha ricordato il premier Mario Draghi, bastano ritorsioni su qualunque livello della catena produttiva globale del vaccino per causare danni molto maggiori dei benefici immediati. Anche il blocco del canale di Suez di questi giorni ci ricorda che basta un granello di sabbia nell’ingranaggio della globalizzazione per generare catastrofi.

In un’economia – e in una società – così integrata, gli incidenti capitano e continueranno a capitare. Sono la variabile che non possiamo controllare. Quella che controlliamo è la nostra capacità di risposta. Nessun investimento è sproporzionato se evita danni maggiori rispetto al costo immediato. Questa è la lezione da tenere presente anche nel decidere come affrontare l’uscita dalle zone rosse e il Recovery Plan.

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