Le recenti polemiche sull’emendamento “salva Mediaset” ci rammentano quanto stretto sia l’intreccio tra la politica e le vicende della società. Ma mettono in ombra il problema dell’azienda Mediaset, ancorata a un business in declino. Nel 1996, al momento della quotazione, Mediaset valeva 3,5 miliardi, saliti a 30 al picco della bolla di internet, per poi calare fino ai 2,3 di oggi.

Mediaset ha fatto fortuna col mercato pubblicitario italiano (grazie anche alle coperture politiche e al tetto sulla pubblicità della Rai). Ma non ha più saputo adeguare il modello originale di business a una società fortemente mutata.

La pubblicità è legata ai consumi, ma in un’economia che non cresce come l’Italia non può avere grandi prospettive.

Lo stesso dicasi per l’unico mercato estero in cui Mediaset è riuscita a consolidare una presenza: la Spagna. I tentativi di diversificare nella produzione di contenuti sono falliti (si veda il caso Endemol, finito in un bagno di sangue).

L’errore della pay tv

Con l’arrivo della pay tv non ha capito che in Italia c’era spazio per una sola piattaforma, per via dei costi elevati dei contenuti che possono convincere i consumatori a pagare un abbonamento, e invece di cercare subito un accordo per distribuire i propri contenuti sulla piattaforma Sky (come poi ha fatto), si è svenata per farle concorrenza con Premium, che poi ha cercato di cedere a Vivendi: cessione che ha innescato un’estenuante guerra legale. Il suo tradizionale modello di business è andato in crisi con Internet perché la pubblicità sulla tv generalista non permette di profilare l’utente, come invece fa la rete, e non può competere con l’offerta e le potenzialità dello streaming che sta radicalmente cambiando le abitudini degli utenti.

Perfino Sky, di fatto, sta passando da una piattaforma satellitare a una di streaming via Internet, specie dopo essere stata acquistata da Comcast, colosso americano integrato nei media e comunicazioni.

Risultato: i flussi netti di cassa generati da Mediaset (al netto del finanziamento di capitale circolante e investimenti fissi) da un massimo di 1,8 miliardi nel 2008 sono calati agli 800 milioni stimati in media dagli analisti per il 2021.

Meno cassa per acquisire i diritti per i contenuti da trasmettere, ridurre il debito che si stima rimarrà ancora elevato nel 2021 (3,9 volte il margine operativo lordo) e pagare i dividendi. Poche le risorse che restano per diversificare o rinnovarsi.

Mistero tedesco

Da questo punto di vista non è chiara la logica che ha indotto Mediaset ad acquistare il 15 per cento della società televisiva ProSiebenSat.1: non può scalarla per beneficiare delle eventuali sinergie, perché, capitalizza 600 milioni meno di lei, ed entrambe le società sono troppo indebitate per finanziare un’acquisizione a leva; né Mediaset può farlo con azioni perché in Borsa è quotata a sconto sul patrimonio netto rispetto al premio di 2,3 volte della tedesca (che ha già diversificato in ecommerce e produzioni di contenuti), e perché la contesa Fininvest-Vivendi ha ridotto il suo flottante a solo il 20 per cento.

L’unica strategia perseguita fin qui da Mediaset è legale, con l’obiettivo di bloccare ogni iniziativa di Vivendi, che detiene il 29 per cento della società.

Prima l’uso della legge Gasparri per congelare i diritti di voto dei francesi; poi il tentativo fallito di conferire le attività in una holding olandese al solo scopo di usare il voto multiplo previsto in quella legislazione per blindare il controllo dei Berlusconi; e adesso che la Gasparri è stata dichiarata illegittima dall’Europa, una legge ad hoc per dare all’Agcom potere di interdire un’eventuale scalata.

Iniziative legittime da parte di Mediaset ma che non chiariscono quale sia la sua strategia per uscire dall’impasse con Vivendi, e per rilanciare la società, interrompendone il lento declino (a parte preservare le poltrone in Mediaset). Naturalmente le due cose sono strettamente collegate.

Incomprensibile anche la strategia di Vivendi. Una tesi è che i francesi siano entrati in Mediaset per meglio negoziare la richiesta di risarcimento danni avanzata da Mediaset per aver receduto senza giusta causa dall’acquisto di Premium; e che Mediaset aspetti una sentenza a proprio favore per negoziare da un punto di forza. Può darsi, ma significherebbe che Vivendi, una multinazionale da 30 miliardi, ha comperato Premium senza due diligence e clausola di revisione del prezzo, e che la giustizia italiana è rapida e risolutiva anche in cause complesse come questa: non so quale delle due ipotesi sia meno credibile.

Il dna di Vincent Bollorè, azionista di controllo di Vivendi, non è industriale ma finanziario, da “raider”. Quindi l’unica certezza è che, in Mediaset, al 29 per cento, non ci rimanga: o esce; o prende il controllo. Spetta a Fininvest decidere in quale direzione spingerlo.

Può usare la causa risarcimento danni (che per quasi un terzo è di Vivendi per via della quota in Mediaset) per negoziare una sua uscita a prezzi superiori al mercato, ricollocare il suo 29 per cento e ricostituire il flottante. Bollorè dovrebbe accettare di monetizzare una perdita, visto che ha in carico i titoli Mediaset a 3,7 euro rispetto ai meno di 2 attuali. E lascerebbe Mediaset alle prese con il problema di un modello di business da rigenerare, senza chiarezza sul come farlo e con quali risorse; ma con le poltrone in salvo.

L’uscita di Fininvest o Tim?

L’alternativa, forse più vantaggiosa per entrambi, sarebbe la cessione della quota Fininvest in Mediaset con un forte premio di controllo, in cambio di azioni Vivendi.

I francesi non dovrebbero monetizzare alcuna perdita, potrebbero ritirare Mediaset dal mercato, avrebbero le risorse per acquisire il controllo di ProSiebenSat.1 e creare così, con la sua Canal+ e Mediaset España un gruppo paneuropeo, da scorporare successivamente in una società da collocare sul mercato per valorizzarla, una volta riorganizzata. Per i Berlusconi un futuro da azionista rilevante di una grande multinazionale.

Posso immaginare anche una seconda via di uscita: uno scambio di azioni con quelle di Vivendi in Telecom Italia (Tim).

I Berlusconi manterrebbero un ruolo di peso in una grande società Italiana (mai sottovalutare l’ego), mentre i francesi riuscirebbero a limitare i danni smobilitando in parte un investimento che si sta rilevando disastroso (hanno comperato il 24 per cento di Tim pagando il titolo 1,07 euro quando oggi ne vale appena 0,36).

Da soci di Tim potrebbero poi dare credibilità a un progetto di fusione tra Tim e Mediaset, realizzando quella convergenza tra media e comunicazioni che ormai è lo standard nel mondo.

Quale che sia la soluzione che verrà negoziata, per Bollorè e i Berlusconi è arrivato il tempo delle decisioni. La melina legale non risolve il declino dell’azienda italiana, ma neppure riduce le perdite della campagna di Vivendi in Italia, che possono solo crescere col tempo senza una svolta in vista. Gli unici a festeggiare a Natale saranno gli avvocati. Come sempre.

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