«La mattina bevo una tazza grande di caffellatte con un paio di biscotti secchi, è tutto e ti ringrazio». Lidia Menapace rispondeva così all’ospite che chiedeva, preoccupato dal suo leggendario stile spartano, della colazione. Lei, instancabile viaggiatrice, sempre disponibile per le iniziative dei compagni, fino alla fine pronta a raggiungere qualsiasi città grande o preferibilmente piccola e piccolissima – dove serve di più un sostegno, c’è più fame di cultura –, sempre in treno dalla sua Bolzano, aveva una preferenza: niente alberghi, meglio casa dei compagni. Perché voleva conoscere, discutere, ascoltare.

Lei che quando invece cominciava a parlare incantava per l’ironia con cui raccontava il romanzo della sua vita. Lidia Brisca Menapace, partigiana, pacifista comunista, o forse comunista pacifista, giornalista, femminista, era «un’anticipatrice», come hanno giustamente scritto di lei Monica Lanfranco e Rosangela Pesenti nell’Enciclopedia delle donne. Stanotte è morta nell’ospedale San Maurizio della sua Bolzano, città dove si era trasferita nel ’64 dopo il matrimonio con Nene, medico trentino. Aveva 96 anni, da ragazzina è sfuggita più volte ai nazisti e ai fascisti, solo da molto anziana si è fatta catturare dal virus. Ma ha resistito giorni prima di arrendersi.

Da Lidia a Bruna, una vita contro il fascismo

Giovanissima era entrata nella resistenza di Val Sesia, Val d’Ossola e Lago Maggiore, inforcando la sua bicicletta e fregando i tedeschi con la sua aria da ragazza borghese e studiosa. Bruna, il suo nome di battaglia, accompagnava i militari in fuga sui sentieri di montagna ma già pensava al dopo, «dovremo fare la libertà cioè dovremo fare la democrazia». Nel dopoguerra si era impegnata nei movimenti cattolici, con la Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana. Nel 64 era stata la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, nella Dc. Insegnava alla Cattolica di Milano, fino che nel ‘68 viene licenziata per la pubblicazione di uno scritto dal titolo inequivoco: Per una scelta marxista. Ma non si iscrisse al Pci, perché ad accompagnarla in quella conversione erano stati quelli del gruppo del manifesto.

Nel 1969 è con fondatori, poi nel quotidiano sin dalla nascita nel 71. «Quando in quelle enormi pagine c’era uno spazio vuoto piccolo, Pintor chiamava me», raccontava con un sorriso ironico di quel periodo pioniero. Lei aveva l’attitudine alla sintesi e alla concretezza, molti suoi compagni intellettuali erano inclini alla teoria, e alle molte righe. È nel Pdup da femminista. È fra le fondatrici del movimento Cristiani per il Socialismo. Ma è soprattutto la sua storia di resistente e di pacifista quella che ci ha lasciato nei suoi libri. In particolare dedicati ai ragazzi. Come Io, partigiana (2014) e Canta il merlo sul frumento: il romanzo della mia vita (2015).

Il ripudio delle armi

Era soprattutto alle ragazze che si rivolgeva nei suoi scritti. A loro raccontava la storia di come aveva ricevuto dal ministero della Difesa, alla fine della guerra, il brevetto Alexander, il certificato del generale feldmaresciallo comandante di tutte le forze alleate presenti in Italia. Era il diploma di «partigiana combattente con il grado di sottotenente». Ma insieme c’era allegato anche il foglio congedo: non sia mai che quelle donne fiere, fin lì indispensabili per vincere la guerra di liberazione, si mettessero in testa il grillo di voler entrare sul serio nell’esercito della Repubblica.

Anche se per Lidia, anche potendo, non sarebbe mai accaduto. Perché era proprio nella guerra di liberazione che era diventata pacifista. «Inizialmente non portavo armi perché avevo paura di farmi male da sola: in casa mia non avevo mai visto né fucili, né doppiette, né altro, mio padre non era nemmeno cacciatore. Metti che tenendo una rivoltella alla cintola mi sparavo sul piede! Poi ho visto cosa facevano le armi e quando mi chiesero se volessi essere addestrata, risposi ‘Non voglio imparare a sparare alla pace di nessuno’», ha raccontato. «Nessuno di noi pensava di “offrire al petto il piombo nemico” sarebbe stata una cosa piuttosto scema, dannunziana e anche un po’ fascista. “Balzare fuori con il petto offerto al piombo nemico” viene consigliato da chi sta seduto bene al caldo, ma sei tu che offri il petto: tu sei in trincea e loro restano a scrivere a casa. Noi volevamo “resistere”». E, raccontava ancora,  «Dopo l’8 settembre 1943, dopo che mio padre fu catturato e chiuso in un campo di concentramento come internato militare italiano, la prima volta che ho incontrato dei ragazzi non in divisa ma con i moschetti modello 91 a tracolla che mi hanno chiesto ‘Ma tu da che parte stai?’, io ho risposto ‘contro quelli che hanno portato via mio padre’».

Gli ultimi anni

Comunista, militante di Rifondazione comunista sin dalla nascita del partito, venne eletta senatrice nel 2006 e venne proposta dai suoi per la presidenza della commissione Difesa. Un’elezione sventata da un cronista del Corriere della sera. Davanti al quale lei, pacifista e antimilitarista, descrisse come «inutilmente costose e inquinanti» le Frecce Tricolori. Erano gli anni dei governi di un centrosinistra bello forse e sicuramente impossibile, quelli in cui il presidente della Camera Fausto Bertinotti si presentava alla parata del 2 giugno con la spilletta dei pacifisti al bavero. La destra, all’epoca Casa della libertà, non voleva Menapace alla presidenza della commissione degli F35, ma ancora meno la volevano i colleghi dell’Unione. Che si fregarono le mani per la gaffe, con infallibile fiuto per la disfatta. La destra prese la palla al balzo e votò il dipietrista Sergio De Gregorio. È il primo cambio di casacca, seguirono altri, è l’inizio della fine del secondo governo Prodi. Nel 2008 la sinistra Arcobaleno divenne extraparlamentare – il neonato Pd rifiutò l’alleanza – ma Menapace non ha mai smesso di fare politica. E di dare una mano, prestigiosa e umile. E’ stata in Banca etica e nell’Anpi. Non si è sottratta alle liste senza speranza del suo partito, e da ultimo anche di Potere al popolo.

Tenace, ottimista, combattente, maltollerava i piagnistei e lo sconfittismo. Quando nel 2017 Donald Trump venne in visita in Italia e i pacifisti non organizzarono neanche uno straccio di manifestazione – una splendida ma solissima ragazza bruna si mise con un cartello sul marciapiede del Viminale e ne ricavò un Daspo – Lidia si arrabbiò con l’amica cronista che le chiedeva se quel vuoto di piazza non fosse un irrimediabile segno del declino della sua parte politica. La risposta fu lapidaria, è resocontata negli archivi del manifesto: «Questo è il solito riflesso condizionato autolesionista della sinistra».

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