Nicola Zingaretti annuncia le dimissioni da segretario del Partito democratico. Nonostante le tensioni di questi giorni, è una notizia che arriva all’improvviso, abbastanza inaspettata. Eppure forse ci sarebbe soltanto da stupirsi dello stupore, dovuto probabilmente al fatto che in Italia nessuno si dimette mai davvero e che è abbastanza inconcepibile che un leader si faccia da parte di sua spontanea volontà. 

A guardare la traiettoria della leadership di Zingaretti, per la verità, si trovano molte ragioni per le sue dimissioni. Soprattutto alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni. 

In estrema sintesi: Zingaretti ha ereditato un partito provato dalla coda lunga del renzismo, dalle fratture interne, dal trauma della sconfitta al referendum costituzionale del 2016. La sua ambizione era di ricostruirlo e rigenerarlo. 

Zingaretti diventa segretario del Pd nel 2019 per ricomporre un centrosinistra ferito e un partito che dopo aver toccato il 40 per cento nel 2014 è sprofondato alle elezioni del 2018 sotto il 20. 

Due anni dopo è difficile fare un bilancio positivo: Zingaretti ha recuperato i rapporti con la sinistra, è vero, ormai LeU è un satellite del Pd e non più un avversario. Ma in compenso ha perso Matteo Renzi e i renziani, che hanno generato Italia viva. Per molti questa è una buona notizia, ma in realtà l’influenza di Renzi sul Pd resta elevata, ed è alla base delle ambizioni da segretario del presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. 

Questo Pd ostaggio di correnti ormai prive di ogni riferimento ideologico e culturale, semplici cordate di (piccolo) potere, si trova costretto a governare con gli avversari ideologici di un tempo, cioè il Movimento Cinque stelle.

Il partito che ai tempi di Walter Veltroni coltivava la superbia di una “vocazione maggioritaria” mai veramente possibile, con Zingaretti è diventato è il partner di minoranza di una coalizione di centrosinistra che piace molto più nei palazzi, dove è una necessità, che agli elettori. 

La crisi profonda

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A questa traiettoria forse non c’erano alternative, chissà. Di sicuro Zingaretti ha sostenuto con uguale convinzione scelte opposte e incompatibili: mai con i Cinque stelle, solo con i Cinque stelle, critico con l’accentramento di poteri di Giuseppe Conte, mai senza Conte, mai governi allargati alla destra, nessuna alternativa ai governi allargati alla destra… 

Dove la crisi è più evidente è sul territorio: Zingaretti non è riuscito a trovare un candidato sindaco neppure per la capitale, la città che pure dovrebbe conoscere meglio visto che governa il Lazio e ha amministrato a lungo la provincia. Anche a Milano, Napoli e Torino il Pd non ha vere risorse interne in campo. 

Un partito che non sa esprimere un nome per Roma e non ne ha uno neppure  per la presidenza del Consiglio dimostra di avere problemi profondi di classe dirigente. Ma ne ha anche sui contenuti. Per cosa si batte il Pd? 

Zingaretti ha scelto con Mario Draghi ministri solo uomini, pur predicando la parità di genere, perché questo equilibrio richiedeva la spartizione delle correnti.

Poi ha presidiato ministeri minori, almeno in questo contesto storico, come quello del Lavoro, lasciando al centrodestra o ai tecnici quelli più caratterizzanti: non c’è un solo ministro del Pd coinvolto nella transizione ecologica, perfino il rapporto con il Sud è lasciato a Forza Italia. 

Per gli appassionati di questioni istituzionali, la posizione del Pd è imperscrutabile sulla legge elettorale e ha perfino votato a favore di un referendum costituzionale che tagliava di un terzo il numero dei parlamentari, riforma voluta dai Cinque stelle che nessuno nel Pd condivideva davvero. 

Zingaretti è un uomo senza nemici, nessuno ne parla male, tutti lo considerano una brava persona. Un po’ l’opposto di Matteo Renzi. Ma è possibile che il destino del Pd debba per forza oscillare tra questi due estremi? 

La vergogna per il partito 

Forse la mossa di Zingaretti è un tatticismo politico, annuncia oggi le dimissioni per essere riconfermato dall’assemblea nazionale del partito tra dieci giorni.

Forse ha trovato il coraggio di candidarsi a sindaco di Roma, come in tanti gli suggeriscono, poiché avrebbe competenze per governare e possibilità di vincere. 

Ma un post come quello dell’addio non sembra la premessa per rinsaldare un rapporto sfaldato. Zingaretti usa toni durissimi: «Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni». 

Sembra lo sfogo genuino di un leader deluso, davvero pronto a farsi da parte. Consapevole che tutto è andato storto, e che quando le cose vanno male la cosa più nobile da fare è assumersene la responsabilità, anche e soprattutto quando le colpe sono condivise. 

Se uno degli scopi del governo Draghi, imposto da Sergio Mattarella, era mettere i partiti in condizione di rigenerarsi e produrre nuove leadership per uscire dallo stallo, allora il piano sta funzionando, dopo i Cinque stelle anche il Pd iniziano una traumatica evoluzione dall’esito imprevedibile. 

Che poi si possa governare un paese con i due partiti principali della maggioranza ridotti in queste condizioni è tutto da dimostrare. 

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