Il “dagli al Pd” è da anni uno sport molto praticato. Così non sorprende che anche in queste ultime settimane, mentre Matteo Renzi e Giuseppe Conte si giocano il futuro del governo al tavolo da poker, i democrat siano oggetto di critiche e di scherno. Perché - questa l’accusa - appaiono ancora una volta incapaci di prendersi la scena e di dare risposte chiare all’antica domanda (leninista) su che fare.

Che la classe dirigente del Nazareno sia subalterna a un premier che appare inadeguato ad affrontare sfide epocali come la pandemia e la gestione del Recovery Fund è disamina non del tutto scorretta. E neppure sbaglia chi dice che Nicola Zingaretti e i suoi colonnelli soffrano di una cronica mancanza di audacia, e di un’idiosincrasia all’azione simile a quella dei personaggi di Samuel Beckett.

Ma le analisi se parziali possono condurre a sentenze ingenerose, soprattutto se non si allarga il contesto e non si conoscono bene le carte in mano ai leader. Sbirciando con attenzione, si scopre così che il Partito democratico sta partecipando a una partita difficilissima senza avere né punti decenti né assi nella manica. Ed è costretto all’arrocco sull’attuale capo del governo non per un ferreo convincimento sulle capacità taumaturgiche dell’avvocato di Volturara Appula, ma a causa delle proprie debolezze strutturali, e di limiti oggettivi di ogni scenario diverso dall’appoggio a Conte. Si tratti di un premier con pedigree piddino o di un governo di larghe intese guidato da tecnici come Mario Draghi e Marta Cartabia, le alternative minerebbero all’istante l’alleanza politica con i Cinque Stelle, disgregando nel profondo il campo del centrosinistra e spianando la strada ai sovranisti alle elezioni che verranno.

«Il Pd galleggia senza vergogna e lascia l’iniziativa a chi ha un partitucolo del 3 per cento», si dice. Ma in troppi dimenticano che gli eredi di Berlinguer hanno perso malamente le elezioni nel 2018, e sono nella maggioranza solo grazie al suicidio estivo di Matteo Salvini al Papeete. Si chiede al Nazareno di battere i pugni e autoproclamarsi playmaker della crisi, facendo finta di non sapere che dopo la scissione di Italia viva (la terza in tre anni!) l’esercito a disposizione è ridotto a ranghi minimi: 92 deputati alla Camera, appena il 14 per cento del totale, e 35 senatori, equivalenti a poco più del 10 per cento degli eletti a Palazzo Madama. Molti dei quali, tra l’altro, legatissimi a Renzi che li piazzò nelle liste.

Forse peccherà di carisma e inventiva, ma Zingaretti non ha truppe sufficienti a imporre la sua linea. In palazzi dominati da forze populiste (M5S e l’ultradestra di Salvini e Meloni controllano quasi il 60 per cento dei seggi), le cancellerie europee e le istituzioni economiche internazionali considerano già un mezzo miracolo come i dem siano riusciti a imporre in ruoli chiave della Ue dirigenti di primo piano come Paolo Gentiloni e David Sassoli, e che il ministero dell’Economia sia guidato un ex europarlamentare stimato come Roberto Gualtieri.

Renzi è convinto che una crisi al buio potrebbero regalare un nuovo prodigio: un dem alla guida pure di Palazzo Chigi. È da un mese che alliscia Zingaretti e Franceschini con l’ipotesi di una promozione. Trascurando l’evidenza che i grillini, pur se divisi in fazioni e più che dimezzati (nei sondaggi) rispetto al trionfo del 2018, hanno il triplo dei parlamentari del Pd: l’imposizione di un leader indicato da altri sarebbe indigeribile. «Spiace constatarlo, ma Giuseppe è l’unico nome che sembra capace di federare le varie anime dei Cinque Stelle», spiega un importante ministro dem che pronostica il Conte ter, con Renzi che si accontenterà di tre ministeri tra cui gli Esteri forse a suo medesimo appannaggio. «Anche Luigi Di Maio è considerato una figura troppo divisiva. Matteo è convinto che pur di non andare a casa i loro gruppi accetterebbero al fotofinish finanche Nosferatu, ma è un azzardo da pokerista: al Senato basterebbero un pugno di dissidenti per mandarci tutti alle elezioni durante la terza ondata di Covid».

La strada stretta che il Pd è costretto a percorrere non conduce nemmeno a governi istituzionali guidati da grand commis, magari con dentro pezzi rilevanti dell’opposizione. Perché un’operazione di questo tipo comprometterebbe il collante politico dell’alleanza tra Pd e Movimento Cinque Stelle, che Zingaretti e compagni vogliono stabile e “strutturata” affinché il campo progressista abbia, in futuro, chance di vittoria. Sia alle prossime amministrative di primavera, dove si cerca affannosamente una quadra a Roma e Napoli, sia alle politiche che verranno.

«Conte non è solo il politico con maggiore gradimento nell’opinione pubblica, ma è pure l’unico garante di questo schema», è il refrain dei maggiorenti. Il ragionamento manca di slanci ideali, ma si basa su una banale constatazione matematica: al netto dell’irripetibile picco renziano delle Europee del 2014, dall’Unione di Prodi all’Ulivo, fino al Pd con gli attuali cespugli come Iv e Azione! di Carlo Calenda, il peso elettorale dei progressisti è sempre lo stesso da un quarto di secolo. Ed è bloccato intorno al 30 per cento. Per potersela almeno giocare con la destra un sodalizio con altre forze è obbligatorio, e gli unici a disposizione – piaccia o meno – sono oggi i grillini. E per molti di loro oggi l’avvocato Conte resta imprescindibile.

 

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