Dopo la guerra in Ucraina, quello che più spaventa e si paventa è il ritorno della stagflazione, un misto di stagnazione produttiva e alta inflazione già noto negli anni Settanta. Non a caso, anche quella stagflazione fece seguito a una guerra, quella del Kippur nel 1973 che portò al blocco delle esportazioni di petrolio verso i paesi occidentali, durato sei mesi e seguito dalla quadruplicazione del suo prezzo.

Per la prima volta dal dopoguerra, i nostri paesi si confrontarono con strozzature di offerta, rarefazione di energia e suo incontrollato rincaro: qualcosa che assomiglia molto a quanto sta avvenendo oggi.

Ma le somiglianze finiscono qui. Innanzi tutto, quella che noi abbiamo chiamato stagnazione fu in realtà solo un drastico ridimensionamento del tasso annuo di crescita del Pil: dal 6,2 per cento negli anni Sessanta al 3,4 per cento negli anni Settanta. Se oggi potessimo immaginare un tasso di crescita del 3 per cento per i prossimi anni, ci sentiremmo di nuovo in era di boom economico.

Ma è soprattutto dal lato inflazione che le differenze sono sostanziali. L’Italia entrò negli anni Settanta sulla scia dell’autunno caldo del 1969, con l’unificazione del punto di contingenza che esaltò il processo di indicizzazione dei salari e con la svalutazione della lira e che amplificò a dismisura l’effetto del rincaro dei prezzi del petrolio e delle materie prime.

Furono questi fattori che determinarono un’inflazione a due cifre e che giustificarono il termine stagflazione per il rallentamento della crescita accompagnato dall’aumento continuo dei prezzi: due fenomeni che prima non venivano mai associati.

Oggi l’Italia non ha più una moneta nazionale che possa svalutarsi, non esistono più sistemi di indicizzazione dei salari, dopo l’accordo del 1993 che abolì la scala mobile, e il paese non si trova in situazione di pieno impiego della sua capacità produttiva: quindi è difficile immaginare il moltiplicarsi dell’inflazione.

Più probabile è la riduzione di capacità di spesa delle famiglie per l’erosione provocata dall’aumento dei prezzi dell’energia e lo spiazzamento di alcune imprese sui mercati mondiali.

Tutto ciò ha tendenza a ripercuotersi più sull’indebolimento ulteriore del tasso di crescita che sull’amplificazione dell’inflazione.

Anche in Europa il processo inflattivo sembra limitato all’importazione, pur se alcuni mercati, come quello tedesco più prossimo al pieno impiego, registrano alcune pulsioni inflazionistiche interne.

Ma una saggia politica economica europea dovrebbe disinteressarsi di queste tensioni limitate ad alcuni mercati, che anzi potrebbero favorire quel riequilibrio competitivo all’interno dell’Europa spesso invocato e che, in un regime di moneta unica, può realizzarsi solo attraverso un differenziale d’inflazione tra i mercati. Si spera dunque che la Bce sappia resistere alle pressioni per una politica monetaria restrittiva.

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