Secondo una ricerca del 2020, il 69 per cento dei lavoratori millennial e il 71 per cento di quelli appartenenti alla Generazione Z controllano i loro strumenti di comunicazione professionale (email, Slack, Trello, Teams e altri) anche al di fuori dell’orario di lavoro.

 Oltre un terzo di loro ammette inoltre di tenere d’occhio questi strumenti con una frequenza ancora maggiore di quella con cui controllano i loro social media personali.

Col tempo, le percentuali potrebbero essere ulteriormente cresciute, visto che questi dati risalgono a prima che la pandemia e i lockdown intensificassero ancor più il nostro rapporto con i dispositivi digitali, aggravando questo perenne controllo di smartphone, social e non solo provocato da un mix di fomo (fear of missing out, la paura di restare indietro e di perdersi ciò che avviene online), compulsività e ansia da prestazione.

E pensare che tutto ciò – secondo quanto riportato, tra gli altri, dalla Harvard Business Review – sul lungo termine non contribuisce nemmeno a migliorare la qualità o ad aumentare la quantità del nostro lavoro.

Contribuisce invece sicuramente a fare esplodere i dati relativi alle persone che soffrono di burnout: secondo uno studio commissionato da Indeed nel 2021, il 52 per cento dei lavoratori pensa infatti di aver già sofferto di questa condizione (che approfondiremo meglio tra poco), percentuale che sale addirittura al 73 per cento tra i millennials e al 69 per cento tra i lavoratori della Generazione Z (che hanno al massimo 25 anni).

E in Italia? In una recente ricerca, sostiene di star affrontando o aver affrontato un burnout il 39,5 per cento dei millennials. Infine, sembra che a soffrire di burnout siano soprattutto le donne, probabilmente a causa del maggior carico di lavoro domestico che devono aggiungere agli impegni professionali (ma ci sono altre ipotesi a riguardo).

Numeri da prendere, in generale, con le pinze: un po’ perché in tutti questi studi viene chiesto ai lavoratori autodiagnosticare se hanno sofferto di burnout o meno, un po’ perché le differenze generazionali possono anche essere spiegate tramite una maggiore propensione delle generazioni più giovani a rivelare eventuali problemi psicofisici.

Cos’è il burnout

Ma che cos’è esattamente il burnout? Nel 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne ha ufficialmente riconosciuto l’esistenza: non però come malattia, bensì come un “fenomeno occupazionale” che “deriva da uno stress cronico sul luogo di lavoro non gestito con successo”.

Tra i sintomi troviamo: esaurimento delle energie, una ridotta efficacia dal punto di vista professionale, cinismo, negatività e lontananza dal lavoro.

C’è però un altro aspetto fondamentale: come sottolineato da Anne Helen Peterson nel suo saggio sul tema, «questo non è un problema personale, ma sociale, che non può essere curato con app per la produttività, liste delle cose da fare o maschere per il viso».

Non è quindi una condizione che riguarda il singolo individuo, ma una condizione causata da un mondo del lavoro diventato eccessivamente esigente e aggravata dalla graduale scomparsa dei confini tra vita personale e professionale, provocata a sua volta anche dalla diffusione di strumenti digitali (in primis gli smartphone) che contribuiscono a farci sentire sempre sul lavoro, permettendoci di non perdere mai d’occhio le notifiche di mail e altro anche quando avremmo bisogno di staccare completamente. È un culto dell’iperproduttività, del cosiddetto “always on”, che col tempo si rivela in tutta la sua nocività.

Ansia da creator

Considerate le premesse, non stupisce che tra chi ha maggiore probabilità di soffrire di burnout ci sia proprio chi ha fatto degli smartphone, dei social network, del perenne controllo delle notifiche, del personal branding e della completa fusione tra vita professionale e personale il proprio lavoro, vale a dire i creator e gli influencer seguiti da centinaia di migliaia o milioni di utenti su YouTube, Instagram e TikTok.

Negli ultimi anni si è moltiplicato il numero di creator che ha deciso di abbandonare una professione che – dietro le quinte dei contenuti sempre brillanti o patinati messi in mostra – richiede di preparare materiale su base quotidiana, di tenere sempre d’occhio cosa stia funzionando e cosa meno, di essere sempre disposti a comunicare con i propri follower, di costruire una presenza su ogni nuovo social network di successo, di gestire le relazioni commerciali e molto altro ancora.

Come racconta il New York Times, tra chi ha ammesso le proprie difficoltà nel proseguire con i ritmi forsennati richiesti da questa professione troviamo anche Charlie D’Amelio, star di TikTok da 150 milioni di follower che nel marzo 2021 aveva ammesso di «aver perso la passione».

Non è l’unico caso: il 19enne Spencewuah (10 milioni di follower) nello stesso periodo ha annunciato il suo addio alla piattaforma, mentre Sha Crow ha ammesso di soffrire di depressione e di essere arrivata a odiare il processo di creazione di contenuti.

Nemmeno in questo caso si tratta di una novità legata ai lockdown (che potrebbero però aver esasperato la situazione): già nel 2018, alcuni YouTuber avevano confessato le loro gravi difficoltà, spiegando di essere vittime di un algoritmo che premia video sempre più lunghi e pubblicati su base pressoché quotidiana: un ritmo impossibile da gestire.

Addirittura già nel 2014 la ex YouTuber Olga Kay aveva spiegato a FastCompany che il problema era soprattutto uno: «Se rallenti rischi di sparire».

Tutto è effimero

Quella degli influencer è ormai un’industria a cui dichiarano di appartenere 50 milioni di persone e che rappresenta per molti versi l’apice di una cultura professionale che da anni va sempre più nella direzione dell’autoimprenditorialità: «L’industria degli influencer è il logico punto d’arrivo dell’individualismo, che ci lascia tutti a sgomitare per l’attenzione senza mai riceverne abbastanza», ha per esempio scritto Rebecca Jennings su Vox.

È anche una professione caratterizzata da un’estrema e intrinseca volatilità (i famosi “quindici minuti di successo” sono ormai diventati i quindici secondi di una story su Instagram) e sottoposta alle feroci e imperscrutabili logiche di algoritmi in grado di determinare da un giorno all’altro il vostro successo o fallimento.

Sarebbe però un errore pensare che il burnout riguardi soltanto freelance del mondo digitale.

Prima di tutto, perché è noto come medici e infermieri, non solo a causa della pandemia, si stiano caricando sulle spalle dei pesi troppo spesso insostenibili; in secondo luogo perché questa situazione riguarda anche i lavoratori dipendenti.

Tornando alla ricerca Zapier del 2020, si scopre che il 66 per cento dei dipendenti della Generazione Z e il 57 per cento dei dipendenti millennials si aspettano che i loro colleghi rispondano ai messaggi di lavoro anche al di fuori degli orari di ufficio, normalizzando così quell’iperproduttività e perenne monitoraggio che sono tra le prime cause del burnout.

All’interno delle aziende, la soluzione alla diffusione del burnout viene spesso individuata in programmi che seguono le stesse logiche aziendali che hanno provocato il problema in primo luogo: lezioni di yoga, nutrizionisti, sedute psicologiche, fitness e simili.

Risposte che sembrano voler mettere una pezza che consenta al lavoratore di proseguire come prima invece di affrontare il problema alla radice.
Lo scenario è ancora peggiore se si considera che, negli ultimi anni, si è arrivati addirittura a studiare la possibilità di creare pillole anti-burnout, da assumere per riuscire ad andare avanti anche quando il nostro cervello sta cercando di avvisarci che siamo arrivati allo stremo delle forze (agendo su un apposito neuromodulatore: la nocicettina).

L’unica soluzione che potrebbe rivelarsi efficace passa invece da una strada opposta: la messa in discussione di un mercato del lavoro e un modello di produttività che arriva a consumare chi invece dovrebbe beneficiarne.

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