La politica contemporanea è minata da un difetto fondamentale: impieghiamo una quantità eccessiva di energia per cercare di metterci d’accordo in merito a cose sulle quali non saremo mai d’accordo. Nel migliore dei casi, la parte politica maggioritaria la spunta e impone la sua visione a tutti gli altri; nel peggiore le decisioni vengono paralizzate dai veti incrociati.

Eppure ci sarebbe una soluzione: e se accettassimo di non metterci d’accordo? Quando l’Europa era attraversata dalle guerre di religione, nel Cinquecento, un giurista di nome Jean Bodin ebbe l’idea che si dovesse conferire al potere centrale un ruolo di “sovrano assoluto”, ovvero sciolto da ogni appartenenza ideologica, realmente neutrale tra le fazioni che si opponevano — all’epoca papisti e ugonotti. Questo non significava lasciare le cose come stavano, ovvero più vantaggiose per i papisti, bensì concedere la libertà religiosa agli ugonotti allentando il legame tra la corona e la Chiesa. Perché sul territorio francese non viveva più una sola comunità, ma almeno due.

Nulla in confronto alla società contemporanea, nella quale convivono innumerevoli gruppi ispirati da visioni del mondo radicalmente diverse. Qui come allora i gruppi dominanti si sentono minacciati e tentano d’imporre la propria visione, talvolta la propria supremazia, in alcuni casi con la violenza. Forse dovremmo considerare le diverse posizioni esattamente come se fossero delle minoranze religiose: ad esempio chi assegna il genere in un modo, chi in un altro. Di fronte a questo lo Stato deve essere neutrale, e sanando lo squilibrio preesistente contribuirebbe a emancipare le minoranze.

Prendiamo un esempio concreto: il matrimonio. Possibile che si debba dividersi attorno a un’istituzione che ha perso gran parte delle sue funzioni sociali? Per cominciare dalla più essenziale, certificare il consenso all’atto sessuale: non soltanto la maggioranza della popolazione riconosce (almeno dagli anni 1960) che possano sussistere degli atti consensuali al di fuori dal matrimonio, ma inoltre i più recenti contributi del femminismo hanno attirato l’attenzione sul fatto che si verificano atti non consensuali all’interno del matrimonio. In nessun modo, oggi, il matrimonio civile certifica alcunché sul consenso — il che ne giustificherebbe l’abolizione. Quanto alle implicazioni sulla genitorialità, sull’eredità, sul fisco, queste già sono o possono essere facilmente stralciate per costituire dei rapporti a sé stanti, certificati da specifici atti pubblici. Chi volesse suggellare la propria unione con un atto simbolico, davanti alla propria comunità o al proprio Dio, avrà sempre modo di farlo: ma sottrarre allo Stato questo simbolo eliminerebbe in un sol colpo la pietra dello scandalo, ovvero un tema di dibattito e di divisione.

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