Andare a votare, per me, è una festa perché mi ricorda che siamo in democrazia. L’occasione di festeggiare sarebbe fornita, questa volta, da un referendum nel cui testo si chiede, ai votanti, di approvare o respingere la legge di revisione costituzionale che prevede la riduzione di 230 (su 630) seggi alla Camera e di 115 (su 315) seggi elettivi al Senato. La riduzione sarebbe anche ragionevole, il parlamento, negli anni, ha delegato alcune competenze alle regioni e agli enti locali. Dunque, è comprensibile chiedere di ridurre il numero dei componenti un organo dello stato i cui compiti sono già stati ridotti.

Tuttavia, non solo non vado a votare festosa, ma voterò No, perché questo referendum mi pare prematuro senza un progetto condiviso e discusso di riforma dell’impalcatura istituzionale. Prematuro anche in un momento nel quale le priorità istituzionali sono altre. Una dovrebbe essere, per esempio, rivedere le competenze ibride tra stato e regioni che hanno portato a confusione e ritardi di gestione durante l’emergenza Covid.

Il referendum viene presentato come una faccenda di numeri e percentuali, e questi numeri, come spesso capita nella comunicazione, vengono utilizzati per significare e dire altro rispetto a ciò che dicono e significano. I numeri, per questo referendum, mi paiono gli alfieri del teorema del Movimento Cinque stelle sui costi – sottinteso: gli sprechi - della democrazia. Solo che non tutti i costi sono sprechi, talvolta i costi sono investimenti.

Bisognerebbe avere la freddezza e soprattutto la fiducia di votare considerando i motivi istituzionali e non gli schieramenti politici, ma io non ce la faccio, non riesco e soprattutto non mi fido di una narrazione –  uso qui il termine come ho imparato dalla politologa Sofia Ventura, cioè l’abitudine di raccontare come logiche cose che non lo sono –, non mi fido, dicevo, di una narrazione che rappresenta la democrazia come sentina di ogni spreco.

La questione matematica tuttavia c’è, ma non riguarda la riduzione di 230 (su 630) seggi alla Camera e di 115 (su 315) seggi elettivi al Senato. Riguarda, essendo la matematica, principalmente, la scienza che studia le relazioni tra gli enti e tra i numeri, il rapporto tra la riduzione dei parlamentari, dunque il parlamento, e il resto delle istituzioni e delle leggi.

Ridurre i parlamentari senza reinserire nella legge elettorale, per esempio, la possibilità della preferenza, mi pare vada contro quel principio costitutivo della democrazia che è scegliere i propri rappresentanti. Voterò No perché il Sì ha un significato politico che non condivido e che anzi avverso. Chiudo con una questione, che riguarda ancora l’inattualità del quesito referendario: se l’abitudine del governo – ogni volta che è possibile – è chiedere al parlamento il voto di fiducia, che importa quanti deputati e senatori sono seduti in aula?

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