Andiamo oltre i “due popoli, due stati”. Il sogno di un’unica Terra Promessa

Per molte vicende correnti gli aggettivi “tragico” e “biblico” sono talvolta abusati: per gli eventi degli ultimi due anni nel territorio della “terra promessa” quegli aggettivi sono appropriati, e neppure sufficienti. I sostantivi non sono meno pesanti: il 7 ottobre 2023 è stato un eccidio; a Gaza ha avuto luogo una carneficina o un genocidio; e Israele è stato ritenuto a rischio di suicidio. Per qualcuno che ha una parte di ascendenza ebrea, che ha quasi parenti e colleghi stimati sia a Gaza sia in Israele, e che ha avuto la fortuna di visitare con loro a Gerusalemme anche i quartieri palestinesi, gli echi emotivi sono battenti. Il 7 ottobre è stato, per chi lo ha perpetrato, un’esplosione di forza bruta; e agli ebrei israeliani ha imposto la sensazione drammatica di essere tornati di colpo alla vulnerabilità dei secoli durante i quali, ben prima della Shoah, in qualunque momento poteva scatenarsi un pogrom. D’altro canto, mi suona incomprensibile il concetto incessantemente ripetuto di “reazione sproporzionata”, come se nella contabilità degli omicidi qualcuno potesse stabilire quale proporzione sia accettabile. Le mosse del governo israeliano sono state analizzate da autorevoli esperti di geopolitica e di strategia militare: essendo digiuno di entrambe, tre punti mi hanno colpito. Altro che nazione start up, la crescita degli haredim trascina Israele nel fanatismo religioso La “reazione” Primo: mi sembra che la “reazione” sia stata esattamente quella che Hamas si aspettava, e credo che fare ciò che il nemico si aspetta non sia di solito una buona tattica. Secondo: malgrado durante la persecuzione nazi-fascista vi siano stati molti episodi di resistenza eroica, come la rivolta nel ghetto di Varsavia, e come ebrei divenuti partigiani, per ottant’anni la narrativa della Shoah è stata che le vittime erano comunità imbelli incapaci di reagire e addirittura incapaci di difendersi. Da quando esiste lo stato di Israele questa narrativa è stata un forte stimolo a una reazione elementare, in parte conscia e in parte inconscia, del tipo contrario: non siamo affatto imbelli, siamo bene armati, siamo pronti non solo a vendere cara la pelle, ma anche a vendicarci. Quali che fossero in questi due anni i moventi e gli obiettivi del governo israeliano, esso ha fatto leva su questo elemento, assai sentito dal suo popolo, e senza il quale il governo stesso sarebbe probabilmente caduto. Terzo: Israele, che ha sempre avuto amici e nemici, nel giro di due anni è riuscito ad alienarsi il 95 per cento del mondo. Indipendentemente dalla considerazione se questo allineamento anti-Israele sia o non sia giustificato, dal punto di vista politico non è un buon risultato. È quasi puerile chiedersi se ciò può causare reviviscenze di antisemitismo: il fatto forse ancora più grave è che tra quelli che Israele ha alienato ci sono tanti ebrei. Molti ebrei della diaspora hanno una lunga ambivalenza nei confronti di Israele – immigrare in quella terra, o essere contenti di rimanere ebrei americani, ebrei sudafricani, ebrei italiani? Ma in generale, da quando Israele esiste, quasi tutti gli ebrei della diaspora lo hanno sostenuto, emotivamente e in molti altri modi. Oggi per la prima volta sento ebrei dire: non osi il governo israeliano pretendere di rappresentarmi. Gaza scompare: c’è solo il 7 ottobre. Così Israele scolpisce la sua storia Speranza nel futuro A fronte della vera tragedia del XXI secolo avvenuta nella terra promessa negli ultimi due anni, parlare del futuro suona quasi sacrilego: ma la speranza può essere solo nel futuro. A me sembra singolare che pur chi non si era mai preoccupato molto di Israele e di Palestina, ora proclami come soluzione la frase fatta “due stati per due popoli”. La geografia non è a favore. La Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituirebbero un ipotetico stato palestinese con una superficie di 6.225 Km² (poco più della Liguria) e una densità di popolazione di 771/Km² (in Olanda, il paese più popoloso dell’Europa, la densità è 424): e le due regioni sarebbero fisicamente separate, mentre Israele si troverebbe a sua volta come tra le due ganasce di una morsa. La storia, parimenti, non è a favore. L’idea di due stati fu proposta nel 1937 dalla Peel Commission all’epoca del protettorato britannico, e fu prevista nel 1993 dagli “accordi di Oslo”: ma non fu mai attuata perché evidentemente, nello spirito della auto-determinazione, né l’uno né l’altro popolo la voleva. Israele, cresce il movimento contro la grazia a Netanyahu: «Basta menzogne» From the river to the sea Lo slogan from the river to the sea (usato da entrambe le parti) significa, per gli estremisti palestinesi, abolire lo stato di Israele; per gli estremisti israeliani, significa soggiogare o scacciare i palestinesi. Ma lo stesso slogan può avere un altro significato: ossia, che in quel territorio tra il Giordano e il Mediterraneo (28,297 Km², poco più della Sicilia) non c’è posto per più di un solo paese. Un unico stato federale in quel territorio era evocato da persone illuminate come Avraham Yehoshua, che un giorno mi ha detto – giustamente: in base a dati genetici, linguistici e storici «i palestinesi sono nostri cugini». In un unico stato federale ci sarebbero circa 15 milioni di abitanti: circa 7 palestinesi, compresi 2 milioni (dei quali si parla poco) che già hanno cittadinanza israeliana; e circa 8 israeliani. La densità complessiva di popolazione sarebbe 523/Km²; lo stato sarebbe aconfessionale (la maggior parte degli israeliani sono laici); tutti i cittadini avrebbero uguali diritti e uguale status. In alcune province si parlerà prevalentemente arabo, anche se tanti capiscono l’ebraico, almeno un poco; in alcune province si parlerà prevalentemente ebraico, anche se tanti capiscono l’arabo, almeno un poco; e forse le lingue ufficiali sarebbero tre, compreso l’inglese. Nel campo profughi di Jenin, dove l’esercito israeliano vuole smantellare le zone franche Prospettiva federale L’idea di uno stato federale bi-nazionale unico non è prerogativa di qualche intellettuale (vedi il sito https://www.federation.org.il/index.php): ma non è mai stata sottoposta a un referendum. Come il 4 novembre 1995 l’assassinio di Yitzhak Rabin da parte dell’estremista israeliano Yigal Amir aveva voluto minare l’attuazione degli accordi di Oslo, così è probabile che l’eccidio del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas mirasse essenzialmente a rendere uno stato federale ancora più improponibile di prima. Eppure per anni Seeds of Peace ha portato giovani israeliani e palestinesi a fare campi estivi insieme; Hand in Hand Schools, una rete scolastica bilingue, ha creato i suoi campus a Wadi Ara, a Haifa, a Gerusalemme; in Women Wage Peace e nel Jerusalem Center for Women donne palestinesi e israeliane lavorano insieme; dal 1999 l’orchestra West-Eastern Divan fondata da Daniel Barenboim e Edward Said ha fatto sentire che una sinfonia simbolizza sintonia. Malgrado tutte queste iniziative, altri da ambo le parti hanno sistematicamente fomentato odio; e sarebbe ingenuo pensare che la cooperazione possa insorgere ora come per magia tra le due parti, entrambe gravemente traumatizzate. Un passaggio intermedio con due stati potrebbe essere politicamente necessario. Noi possiamo solo auspicare, e alcuni vorranno anche pregare: a decidere dovrebbero essere loro, gli israeliani e i palestinesi. Per uno stato federale, non trascurabile sarà la questione del suo nome. Secondo la Bibbia, la terra di Canaan era stata promessa ad Abramo, riconosciuto da ebrei, da cristiani e da islamici come profeta e come loro patriarca: a me sembra che Terra Promessa sarebbe un bel nome per un nuovo stato. *medico e scienziato Criticare Israele non è antisemitismo. No a chi chiede questa equiparazione per legge