Da noi gli appalti per i lavori pubblici sono sinonimo di ritardi cronici, burocrazia, contenzioso, corruzione, costi eccessivi, violazione delle norme sul lavoro e sicurezza. Un grave problema tornato alla ribalta con il decreto Semplificazioni, in corso di approvazione.

Le Direttive europee sugli appalti sono uguali in tutta Europa, ma solo in Italia il problema appare endemico. Le regole ci sono. Il Codice dei Contratti Pubblici è del 2016, e ha sostituito il precedente Codice di appena 10 anni prima. L’Autorità anticorruzione (ANAC) è del 2014, e a sua volta ha sostituito l’Agenzia di Vigilanza AVCP del 2006. Ma ora, nel decreto, si propone di andare a ritroso eliminando regole di appena cinque anni fa.

Dovrebbe essere evidente che le regole non sono il problema principale, anche se il Codice appesantisce la normativa rispetto a quanto richiesto dall’Europa, ma non sono neanche la soluzione. E’ il risultato di un approccio giuridico formalistico, che si basa sulla verifica ex ante del rispetto formale della legge, ma senza la capacità di controllare ex post il rispetto delle regole e la corretta esecuzione delle opere.  Mancano poi gli incentivi per cambiare comportamenti e modus operandi della pubblica amministrazione, caratterizzata da formalismi e inazione per via del timore dei funzionari di incappare in responsabilità personali.

Bisognerebbe dare tempi certi alle autorizzazioni, come già avviene con Banca d’Italia nella regolamentazione finanziaria. Ma il principio del silenzio assenso, rafforzato dal Decreto, non dà certezze agli operatori in quanto può essere annullato dalla stessa pubblica amministrazione o anche dal giudice. Penali, risarcimento dei danni e potere sostitutivo del dirigente responsabile nei confronti dei funzionari inadempienti, pure previsti, sono un valido strumento ma solo se applicati: difficile che lo siano se è l’amministrazione coinvolta che deve prendere provvedimenti contro sé stessa e i suoi funzionari.

Idee pratiche

Per rendere più rapide e snelle le autorizzazioni, l’appaltatore dovrebbe interfacciarsi con un unico ente che, dopo aver completato il suo iter, inoltra la pratica agli altri enti coinvolti, ognuno nel rispetto dei tempi prestabiliti.  Facile prevedere l’opposizione degli enti alla riallocazione di competenze che questa proposta comporterebbe. Tuttavia, il governo potrebbe introdurre la modifica limitatamente ai progetti del Pnrr, sperando che col tempo la regola diventi generale.

Una volta assegnati gli appalti, si dovrebbero scoraggiare gli interventi di terzi che portano a un allungamento dei tempi, come la prassi del Dibattito Pubblico (dopo che il progetto è stato appaltato) o i ricorsi al Tar di un concorrente, se non per chiare e provate violazioni delle norme; e i giudici dovrebbero usare un maggiore rigore nel liquidare le spese legali, specie per i ricorsi infondati.

Il principale problema è però costituito dalla scarsa professionalità delle stazioni appaltanti nella definizione dei bandi di gara e dei progetti, nella gestione delle procedure e nelle verifiche della corretta esecuzione dei lavori. E’ un problema di comportamenti, incentivi e organizzazione, non di regole.

Contratti e progettazione carenti danno la possibilità all’appaltatore di aumentare costi e tempi dei lavori senza penali, con l’invocazione di eventi sopravvenuti; non permettono di valutare se il costo dell’offerta vincitrice è coerente con il rispetto delle norme sul lavoro e sulla sicurezza o con la qualità richiesta per i materiali;  e rendono impossibile una verifica dello stato di avanzamento lavori e il monitoraggio dei sub appaltatori.

La stazione unica

Ci sono circa 32.000 stazioni appaltanti in Italia: troppe perché ognuna si doti delle capacità professionali necessarie per una buona progettazione e il monitoraggio dell’esecuzione dei lavori. Ammettere che un appaltatore collabori con l’ente alla stesura del progetto, o addirittura ne sia l’autore, aggrava il problema perché falsa la concorrenza (chi gareggerebbe sul progetto del concorrente, specie nel project financing?), e riduce la trasparenza del costo dell’appalto (che accorpa progetto ed esecuzione).

La soluzione ideale, almeno per i progetti del Pnrr, sarebbe la stazione appaltante unica nazionale dotata di personale qualificato, salari di mercato e risorse adeguate a cui tutti gli enti si devono rivolgere per la progettazione e lo svolgimento delle gare (modello Consip).

La stazione unica avrebbe anche le risorse e le capacità per sviluppare un database centralizzato con tutti i progetti autorizzati, gli enti responsabili, le caratteristiche tecniche, i soggetti coinvolti, incluso i sub appaltatori, la reportistica sull’avanzamento lavori e su tutti i flussi finanziari legati al progetto, che è lo strumento migliore per combattere la corruzione; magari sul cloud promesso dal ministro Colao. Emblematico a questo proposito i vantaggi ottenuti con la (parziale) centralizzazione e informatizzazione del piano vaccinale.

Un’alternativa basata sulla collaborazione pubblico privato sarebbe l’istituzione di un albo di società indipendenti di progettazione, autorizzate, vigilate, e responsabili del proprio operato, a cui gli enti si devono obbligatoriamente rivolgere sulla base di un tariffario di mercato: è il modello usato per le società di revisione o le società di gestione del risparmio.

Risolvere i sub appalti 

Se c’è professionalità e indipendenza nella progettazione, e capacità di verifica dei lavori, sparisce il problema dei sub appalti, che da noi è ineludibile visto che le imprese sono sottodimensionate e il mercato del lavoro è rigido in un settore con picchi irregolari di attività (la vincita di un appalto).  L’obbligo per l’appaltatore di prestare garanzie e fideiussioni adeguate, la tracciabilità dei pagamenti e le verifiche finanziarie sulle imprese sub appaltatrici assicurerebbero una migliore esecuzione dei lavori, oltre a ridurre i rischi di infiltrazioni mafiose e del mancato rispetto degli standard salariali e della sicurezza nei cantieri.

La soluzione proposta del massimo ribasso è impropria, perché non consente di valutare la qualità dei progetti sulla base di criteri discrezionali di una commissione di gara. La competizione solo sul prezzo potrebbe essere accettabile in un’asta strutturata a due stadi, in cui nella prima parte gli appaltatori ammessi alla gara competono sui criteri qualitativi; e solo i due o tre migliori passano alla seconda fase in cui la competizione avviene esclusivamente sul prezzo, in un’asta con rilanci, e telematica per assicurare la massima trasparenza: ma solo in presenza di progetti esecutivi dettagliati, ben fatti e verificabili.

Cercare risposte al mancato rispetto delle regole con altre regole, o con l’eliminazione delle regole precedenti, senza riuscire a cambiare comportamenti e incentivi, significa entrare in un circolo vizioso senza apparente uscita, come l’annoso problema degli appalti dovrebbe aver insegnato.    

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