I recenti programmi di stimolo dell’attività economica negli Stati Uniti e in Europa hanno riportato di attualità un tema che sembrava ormai superato: l’inflazione. Secondo alcuni economisti e commentatori, l’utilizzo massiccio di risorse monetarie e fiscali per uscire dalla crisi del Covid potrebbe portare a un aumento dei prezzi di beni e servizi, con conseguenze non solo sul potere di acquisto ma anche sulla stabilità democratica.

Un riferimento storico immediato  su questo tema è per molti l’episodio dell’iperinflazione tedesca degli anni Venti  del secolo scorso. Questo evento viene spesso associato all’aumento di popolarità di Hitler e alla conseguente presa di potere da parte del nazionalsocialismo in Germania.

L’argomento secondo cui l’iperinflazione avrebbe favorito l’aumento di consensi del nazismo viene utilizzato da decenni da parte degli economisti più ortodossi per giustificare posizioni rigoriste e contrarie a qualsiasi incremento della spesa pubblica. Quest’ultimo potrebbe portare, a loro dire, ad un aumento incontrollato dei prezzi e alla deriva politica.

Una serie di studi recenti – tra cui spicca il volume 1931 di Tobias Straumann - contestano questa tesi, e dimostrano che le radici economiche del consenso al nazionalsocialismo non vadano tanto cercate nell’iperinflazione quanto nelle politiche di austerità del cancelliere Brüning, che guidò la Germania tra il 1930 e il 1932. Mentre l’episodio di iperinflazione venne risolto con la riforma monetaria del 1923, il partito nazionalsocialista rimase pressoché insignificante a livello elettorale durante tutti gli anni Venti. Ancora nel 1928, il partito di Hitler aveva solo il 2.8 per cento dei voti a livello nazionale. Nel 1932, dopo solo quattro anni, raggiunse invece il 37 per cento dei suffragi.

La responsabilità di questa crescita improvvisa è da addebitare ai tagli alla spesa e agli aumenti delle tasse decisi da Brüning, che esacerbarono una situazione già molto grave per via della recessione degli anni ‘30. Brüning si rifiutò di utilizzare politiche espansive per combattere la disoccupazione di massa e provocò una spirale deflazionistica – una diminuzione dei prezzi al consumo - deprimendo ancora di più investimenti e consumi e quindi il contesto economico generale.

Un’analisi dettagliata dei dati elettorali tra il 1930 e il 1933 mostra che le percentuali di voto più elevate per i nazisti arrivarono proprio dalle aree più colpite dalle politiche di austerità. Inoltre, un recente studio di un ricercatore dell’università di Navarra, Gregori Galofré-Vilà, basato sull’analisi di dati sull’inflazione in oltre cinquecento comuni, non trova evidenze empiriche di maggiori percentuali di voto per i nazisti nelle zone più colpite dall’iperinflazione del 1923.

Il lato italiano

E l’Italia? Mussolini diventò presidente del Consiglio nel 1922, undici anni prima della nomina di Hitler a Cancelliere del Reich. Il contesto storico era radicalmente differente, ed è difficile imputare ad errate politiche economiche dei governi in carica l’aumento di consensi del fascismo.

La presa del potere da parte di Mussolini seguì piuttosto due momenti fondamentali della storia italiana: la Grande Guerra del ‘15-‘18 e il cosiddetto biennio rosso, ovvero gli anni 1919 e 1920 caratterizzati da una serie di lotte contadine e di scioperi nei centri industriali italiani.

Il periodo 1914-1920 vide nel complesso un progressivo impoverimento della piccola borghesia - commercianti e piccoli proprietari - non solo rispetto ai latifondisti del sud e ai grandi capitalisti del nord, ma anche relativamente agli operai delle fabbriche. I primi avevano lucrato sulle forniture di materiale bellico, arricchendosi a dismisura durante la guerra.

I secondi videro i loro salari reali - ancora molto bassi in confronto a quelli delle altre potenze belligeranti - aumentare grazie alle lotte del biennio rosso. Fu quindi l’impoverimento relativo della piccola borghesia – in un paese di forti disuguaglianze – a favorirne la radicalizzazione e a fornire al fascismo il suo braccio armato e i suoi stessi quadri dirigenti.

Le esperienze del secolo scorso permettono di arrivare a due conclusioni. Il caso tedesco mostra che sarebbe pericoloso mettere in opera politiche di consolidamento fiscale e riduzione del debito una volta passata l’emergenza del virus, e in piena crisi economica. Inoltre, quando l’emergenza sanitaria sarà finita e le misure eccezionali a sostegno delle attività economiche prenderanno fine, si rischierà di assistere a un’ulteriore depressione della crescita. In questo contesto, le politiche di austerità potrebbero comportare un’ulteriore crisi politica e la ripresa di popolarità dei partiti di estrema destra – o come vengono chiamati ultimamente “sovranisti”.

Il caso del fascismo, dal canto suo, mostra che trascurare alcuni settori economici a beneficio di altri potrebbe essere altrettanto nocivo, inasprendo il risentimento tra diversi segmenti della classe media. L’Italia del post pandemia non dovrà temere l’inflazione e l’aumento della spesa pubblica, ma dovrà indirizzare gli investimenti verso una crescita inclusiva che permetta di diminuire, anziché accentuare, le tante disuguaglianze esistenti nel paese.

© Riproduzione riservata