Martedì mattina decine di siti in tutto il mondo sono diventati all’improvviso irraggiungibili: il New York Times e la Bbc, il Guardian e il Financial Times, ma anche Amazon, Spotify, Reddit e Twitch, solo per citarne alcuni fra i più famosi. Di fronte a questo improvviso blackout, durato meno di un’ora, molti hanno immaginato che ci fosse un attacco hacker in corso: qualche giornale, fra quelli rimasti online, lo ha pure scritto (a dire il vero soprattutto in Italia, ma questo è un altro discorso).

L’aspetto forse più interessante lo ha riportato Samuel Arbesman sull’Atlantic: quando non riusciamo a capire una tecnologia, specie se particolarmente complicata, cerchiamo istintivamente spiegazioni semplici anche per motivare un malfunzionamento. La minaccia esterna, magari di qualche superpotenza non identificata, è in fondo un concetto alla portata di tutti, coerente con l’immaginario di libri e film. Peccato che in questo caso non fosse vero e forse neppure verosimile.

Cos’è successo

C’era un’altra spiegazione che permette di unire i puntini in questo disegno, ed è quella ufficiale. Fastly gestisce una rete che permette di distribuire i contenuti in maniera più efficace (la tecnologia si chiama Cdn: Content delivery network), attraverso una serie di nodi, distribuiti in tutto il mondo. Sono server che memorizzano alcuni contenuti dei siti che visitiamo, per permetterci di raggiungerli più velocemente. In sostanza, riducono la distanza che deve essere percorsa dai dati, fra il punto iniziale e finale della rete.

Martedì mattina un bug, causato da un aggiornamento del sistema, ha fatto saltare per qualche tempo la connessione fra i vari nodi della rete. Per descriverne le conseguenze, la tentazione è di cedere alla solita immagine di un battito d’ali di una farfalla che provoca un uragano dall’altra parte del mondo, in maniera apparentemente misteriosa.

Tutto quello che non sappiamo

Il fatto è che di misterioso non c’è in realtà nulla. Viviamo in una realtà dove ogni giorno accadono cose controintuitive che sembrano sfidare le leggi della natura e della fisica. Ci sono tecnologie che si basano su concetti più o meno complicati, alla portata di una minoranza di persone.

Normalmente questo non ci causa alcun problema. Poi, come scrive Arbesman, qualcosa va storto e capiamo «la differenza fra il modo in cui immaginiamo funzioni una tecnologia e come funziona davvero». Solo se ce ne rendiamo davvero conto possiamo fare il passo ulteriore: provare a ridurre questo gap. Almeno negli aspetti che ci toccano più direttamente come utenti e consumatori.

Altrimenti c’è un grosso pericolo, molto più concreto di qualsiasi attacco hacker immaginario. Il rischio che la tecnologia rimanga appannaggio di pochi, con un potere immenso di cui ignoriamo persino l’esistenza.

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