L’amministrazione Trump annuncia l’ennesimo provvedimento che prende di mira gli studenti internazionali e gli scambi accademici: la sospensione dei colloqui nelle ambasciate e nei consolati necessari a studenti e studiosi per ottenere visti d’ingresso per motivi di studio e di ricerca negli Usa. Di fatto si blocca un processo che coinvolge ogni anno decine di migliaia di persone.

Preconizzando il problematico sistema di sorveglianza futura su chi vorrà entrare negli Usa, il segretario di Stato Marco Rubio fa sapere che prima si dovrà fare uno screening delle pagine social di chi fa domanda, per vedere se non vi siano commenti ritenuti minacciosi per la sicurezza nazionale. La discrezionalità è totale. Ed è già stata usata per annullare migliaia di visti, procedere a espulsioni e arresti arbitrari, sospendere nel caso di Harvard la certificazione governativa necessaria per la concessione o il prolungamento del permesso di soggiorno.

Come si spiega questo utilizzo degli studenti internazionali nell’assalto lanciato dall’amministrazione Trump al sistema universitario statunitense? Cosa lo ispira e quali sono suoi obiettivi ultimi? Tre sono, in grande sintesi, le risposte possibili. La prima è tutta politica. Trump considera le università come istituzioni nemiche, da controllare e piegare. Perché dispongono degli strumenti per cercare di contrapporsi al disegno autoritario in atto, contestandone legalmente i metodi, delegittimandone le premesse, e indebolendo politicamente chi li mette in atto.

Nelle mille battaglie lanciate dall’amministrazione, questa è ovviamente una delle più importanti. Per le straordinarie risorse di cui queste università dispongono; per la loro influenza nella vita pubblica; perché controllare la scuola o influenzare i suoi curricula è, da sempre, strumento classico di sistemi autoritari come quello che si sta cercando di edificare negli Usa.

La seconda risposta è molto pratica e terrena. Gli studenti internazionali pagano più tasse di quelli statunitensi e contribuiscono in modo decisivo al bilancio di tanti college e università, soprattutto quelle che non hanno le dotazioni economiche degli atenei più ricchi e prestigiosi. Bloccarne l’accesso negli Usa è una forma esplicita di ricatto e intimidazione, che, su questo come su molti altri dossier, sembrano costituire i metodi di governo preferiti di questa amministrazione.

Terzo e ultimo, quella che per comodità potremmo definire l’ideologia Maga. Fondata su due pilastri ben visibili in questa vicenda: l’antiintellettualismo da un lato e un nazionalismo estremo, che tende a tracimare in nativismo e xenofobia, dall’altro. Il mondo universitario statunitense non è esente da responsabilità, ci mancherebbe, anche se continua a costituire una realtà straordinariamente dinamica, capace di attrarre intelligenze da tutto il mondo, produrre ricerca innovativa e offrire strutture – laboratori, biblioteche, archivi – che hanno pochi, pochissimi eguali al mondo. È, insomma, assai diverso dalle caricature che sovente ne vengono fatte dai suoi numerosi detrattori.

Il pretesto formale del tentato commissariamento governativo delle università sarebbe la loro incapacità, un anno fa, di fronteggiare proteste e occupazioni su Gaza che sarebbero poi degenerate in vero e proprio antisemitismo. Di pretesto in realtà si tratta. L’attacco alla scuola della destra più radicale viene da lontano e ha molti precedenti. E oggi fa leva anche su quella grammatica nativista che è così centrale nel discorso trumpiano.

Gli studenti internazionali sono un anello vulnerabile della catena del sistema educativo statunitense. Sono esposti alla discrezionalità – talora estrema – di chi concede e rinnova un visto J-1 o F-1. È facile colpirli o intimidirli. Ed è facile, facilissimo trasformarli in primari capri espiatori: stranieri che, in ultimo, turbano la serena vita dei campus universitari americani. Che alimentano proteste distruttive e impediscono il corretto svolgimento delle attività scolastiche. Pericolosi “altri”, insomma, da arrestare, allontanare e cercare di non far più entrare.

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