Il caffè americano va sorseggiato con calma. Lo sanno bene Rashon Nelson e Donte Robinson, che amano il caffè e amano prenderlo da Starbucks, la catena che ha fatto della qualità delle sue miscele e del comfort dei suoi negozi un marchio di fabbrica. Nelson, 23 anni, quando, insieme al suo amico, sta seduto al solito tavolo, aspettando un’altra persona per un appuntamento di lavoro. È un pomeriggio come tanti e Nelson scherza con Robinson. Ma quel giorno c’è un nuovo manager nel caffè, vedendoli seduti senza consumare si infastidisce. Chiama la polizia. Gli agenti si avvicinano ai due ragazzi, non fanno domande, li invitano subito a uscire. Nelson e Robinson spiegano che stavano aspettando una persona per un incontro di lavoro, ma vengono portati fuori dal locale in manette.

Un cliente filma la scena e il video dell’arresto dei due ragazzi viene visto da undici milioni di persone in poche ore, suscitando un’onda di indignazione. C’è un unico motivo per cui vengono trattati in quel modo: Nelson e Robinson sono due ragazzi afroamericani.

La risposta di Starbucks non tarda ad arrivare. L’amministratore delegato, Kevin Johnson, si scusa per l’accaduto e annuncia che tutti i locali sparsi negli Stati Uniti sarebbero rimasti chiusi per un giorno, per consentire a circa 175mila dipendenti di partecipare a un corso finalizzato a prevenire la discriminazione razziale. Starbucks si rende conto che l’unico modo per garantire che episodi del genere non si ripetano più è tramite la formazione dei propri dipendenti, i primi ambasciatori del brand.

Ai fatti di Philadelphia, Starbucks risponde con un’azione potente di employee branding, il processo tramite cui le persone dell’azienda interiorizzano i valori del marchio e sono motivati a proiettarli ai clienti e a tutti gli stakeholder con cui vengono a contatto. Si tratta di un importante strumento di comunicazione. Sottovalutarne il potenziale può portare a seri danni di reputazione.

Un singolo dipendente, infatti, può creare un danno di immagine che si riverbera su tutti i colleghi fino all’ad e al marchio stesso. Al contrario, il comportamento positivo di un collaboratore può proiettare una luce positiva su tutta l’azienda.

In questo contesto il personal branding di un dipendente non è più solo uno strumento di autopromozione ma anche un mezzo con cui tutta l’azienda può crescere.

Ecco perché le imprese hanno iniziato a cercare collaboratori in grado di valorizzare al meglio la propria reputazione tramite i propri canali di comunicazione. Il mondo aziendale si è reso conto che il valore di una persona non si esprime solo nei contesti professionali ma anche nella sua proiezione esterna. Allo stesso tempo i dipendenti riconoscono i vantaggi di accreditarsi come esperti del settore in cui lavorano.

Nel suo blog, Roope Heinilä, amministratore delegato di Smarp, piattaforma per l’employee branding, lo spiega: «Le aziende hanno cercato per decenni di convincere influencer esterni, come testimonial e celebrità, a rappresentare i loro marchi, ma hanno scoperto solo di recente che i migliori influencer potrebbero essere proprio i loro dipendenti: hanno un interesse e una comprensione dell’azienda migliore di chiunque altro».

Ovviamente questo ha un impatto positivo sull’employer branding, nome simile ma significato diverso: indica infatti la reputazione dell’azienda come luogo di lavoro. Se un’impresa ha la fama di un posto piacevole riesce infatti anche ad attrarre e trattenere i collaboratori migliori.

I dati della Randstad Employer Brand Research del 2020 lo mostrano. Con oltre 185mila persone intervistate in trentatré Paesi, la metà dichiara che non lavorerebbe per un’azienda con una pessima reputazione, neanche a fronte di un aumento dello stipendio. Gli individui, infatti, preferiscono identificarsi con una cultura, fatta di valori e credenze piuttosto che con un’azienda fatta di gerarchie e regole da rispettare.

Oggi più che mai per le imprese è diventato fondamentale trasmettere le giuste percezioni e presentare con trasparenza i propri valori. In questo modo sarà possibile attrarre i talenti migliori e spingerli a contribuire non solo con il proprio lavoro ma anche con la propria partecipazione attiva agli obiettivi aziendali.


Questo testo è un estratto dal libro Tu puoi cambiare il mondo – La reputazione personale: promuovere il talento, condividere il valore (Marsilio)

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