Nel dibattito social sulla produttività in Italia hanno tutti ragione e tutti torto al contempo, ma riguarda la questione cruciale: perché l’Italia cresce così poco? Antefatto: il deputato di Italia viva Luigi Marattin commenta le considerazioni finali del governatore Ignazio visco pubblicando due grafici. Uno che mostra la media degli stipendi in Europa tra 1990 e 2020, l’Italia è l’unica con un risultato negativo, -2,90 per cento. Nel grafico a fianco, quello estratto dalla relazione annuale della Banca d’Italia, che mostra un aumento di poco più del 10 per cento della  produttività del lavoro nel settore privato rispetto al 1995.

Sottinteso di Marattin: i lavoratori italiani non possono lamentarsi dei salari, sono bassi perché la produttività è bassa. Gli replicano vari economisti dicendo che, anche se così fosse, comunque in aggregato si dovrebbe registrare un piccolo aumento negli stipendi, non una diminuzione.

Fuori da Twitter il dibattito è un po’ più complesso. La crescita del Pil, in termini di valore aggiunto prodotto all’interno di un paese, è il risultato di tre ingredienti: quanto capitale e quanto lavoro c’è e con quale efficienza vengono impiegati. Se l’economia del paese X è fatta da 1000 euro di capitale tenuti su un conto in banca, produrrà molto meno valore aggiunto rispetto all’economia del paese Y dove i 1000 sono stati usati per comprare un computer e il lavoratore di Y manda mail e fa calcoli su Excel mentre quello di X usa penna e fogli di carta.

Cosa è andato storto

In Italia, secondo uno studio della Banca d’Italia di Matteo Bugamelli e altri (2018) tra il 1995 e il 2016 la crescita del Pil è stata molto più bassa rispetto agli altri paesi Ue comparabili: soltanto 0,5 per cento all’anno, contro l’1,3 della Germania, l’1,5 della Francia e il 2,1 della Spagna.

Tale crescita è dovuta «alle dinamiche della popolazione, causate interamente dall’immigrazione, dall’incremento del tasso di occupazione, mentre la produttività del lavoro e in particolare la produttività totale dei fattori ha dato un contributo zero (o leggermente negativo), al contrario di quanto successo in Germania, Francia e, almeno per la produttività del lavoro, in Spagna».

Per quanto sorprendente, questa conclusione ha implicazioni molto chiare: per un decennio l’Italia è cresciuta soltanto perché aumentava uno dei tre ingredienti della crescita, cioè il numero di lavoratori, grazie agli immigrati (nessun leghista deve aver mai letto il paper di Bankitalia). Ma il modo in cui usavamo quei fattori, diventava progressivamente meno efficiente.

Quindi ha ragione Marattin a dire che il problema dei salari è la produttività del lavoro. Ma ha torto chi conclude che il problema sono i lavoratori: la produttività non dipende (almeno in aggregato) dalla buona volontà, dall’impegno, o da pretese esose dei sindacati. Il problema è che troppi lavoratori italiani sono impiegati in settori che crescono poco, ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale: una guida turistica, un gelataio, un artigiano dell’edilizia può diventare bravo, aumentare le ore lavorate, usare qualche supporto digitale per la contabilità, ma non potrà mai produrre più di tanto.

Un ingegnere o programmatore che sa maneggiare i dati può ridurre drasticamente i costi di una grande impresa, e cambiare, da solo, il suo conto economico. Chi vende contenuti o servizi a distanza grazie al digitale ha margini di crescita enormi.

Troppi italiani sono impegnati in settori a bassa tecnologia, in imprese troppo piccole per essere efficienti, o in settori decotti, tenuti in vita da un patto sociale che considera più onorevole pagare salari inutili per mansioni ridondanti piuttosto che sussidi di disoccupazione e (in alcuni casi) di riqualificazione. In Italia oltre il 40 per cento dei lavoratori privati è in aziende con meno di 9 dipendenti, in Francia e Germania meno della metà: in contesti così piccoli non ci sono molti margini di miglioramento.

E il capitale?

Un po’ di ragione ce l’hanno anche quelli che su Twitter danno la colpa agli imprenditori e indicano il deprimente andamento della produttività del capitale in Italia (quanto valore aggiunto si produce per ogni euro investito in più). Ma la produttività del capitale può essere bassa perché si investe troppo o perché non si investe abbastanza e quindi non si sviluppa alcuna innovazione significativa.

Sempre dai dati Bankitalia, si vede che gli investimenti lordi come quota del Pil sono passati dal 23,2 per cento di media tra 1981 e 1990 al 20 del 2021, ma è un dato che dice poco. Non sempre basta investire di più per avere più crescita e men che meno per avere una maggiore produttività del capitale (ogni euro investito in Google ha risultati diversi che ogni euro investito in Tim, per intenderci).

La bassa produttività è un problema di tutti, di sistema, di istituzioni, di scelte collettive. La logica dello scaricabarile aiuta poco: anche se voi vi credete assolti, avrebbe detto Fabrizio De André, siete lo stesso coinvolti.

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