Ha ragione Piero Ignazi che su questo giornale ha motivato una riabilitazione delle correnti, anche dentro il Pd. «Un partito che non si confronta si riduce a una palude», ha scritto così. Se non bastassero le opinioni, a dargli ragione sono i fatti. In quindici anni di vita quel partito ha cambiato otto segretari. I due che lo hanno guidato più a lungo, smessa la carica hanno pilotato altrettante scissioni. Un paio d’altri hanno cambiato vita e mestiere. L’ultimo si è dimesso con rumore denunciando di provare vergogna per una forza occupata a inseguire poltrone mentre gli italiani lottano col Covid-19. Il nuovo segretario ha respinto i diktat delle correnti su assetti e linea politica preferendo misurare il pluralismo sul merito di piattaforme e idee. Tutto bene, se possibile con un’aggiunta che la vicenda ultima ha messo bene in luce.

La scelta del leader

Date le regole che quel partito si è dato il peso delle correnti è risultato proporzionale all’impossibilità di una normale dialettica dentro i suoi gruppi dirigenti. In altre parole, avendo fondato la scelta del leader sul meccanismo anomalo di primarie aperte al mondo, e avendo strutturato i congressi come enormi macchine di propaganda individuale corredate da filiere di arruolati in debito al capo di turno, le sedi del dibattito sono divenute pletoriche versioni dei rapporti di forza espressi dai gazebo. Insomma, chi vince prende il banco e comanda fintanto che uno o più fattori (quasi sempre una sconfitta alle elezioni) non ne sancisca esaurita la spinta. Tra le conseguenze della prassi vi è stata la scomparsa di quella sana ricerca di sintesi che, bene o male, aveva contrassegnato il modo di organizzarsi dei partiti tradizionali dove i leader non mancavano, ma attorno a loro si animavano personalità e protagonisti convinti di presidiare la propria autonomia.

Regole e sostanza

Ora, l’evolvere dei fatti recenti, le dimissioni di Nicola Zingaretti e l’incoronazione di Enrico Letta, ha sollevato il sipario sulle regole da cambiare e su come metter fine a un metodo del confronto, a un modo di fare i congressi, privo di qualunque razionalità. Parlo di congressi della durata di mesi, costruiti su pacchetti di tessere, condizionati da patti tra notabilati. Non ultimo, parlo di primarie che consegnano il destino di una comunità politica a rapporti di forza, potenza del denaro, buone entrature nelle televisioni. Il fatto che tutto questo possa cambiare è dimostrato dalla scena a cui si è assistito. Un segretario eletto con un consenso amplissimo dopo mesi di un iter complicato d’improvviso ha preso la porta. Il giorno appresso, un partito orfano ha chiesto a una personalità lontana per anni dall’impegno in patria di cambiare vita e mettersi al timone di un’imbarcazione in balìa delle onde. Ma cos’è stato questo se non la conferma che una classe dirigente è tale quando assume su di sé la responsabilità della scelta sul proprio destino? Ed essendo la nuova segreteria motivata ad agire come se a legittimarla fosse stato il percorso bizantino previsto dallo statuto attuale, come non prendere atto di un contrasto evidente tra regole e sostanza consumato nel consenso dei più?

Cambiare lo strumento

D’altra parte, parliamo della formazione di una cultura politica e della selezione di una classe dirigente: togli a un partito queste due leve e lo ridurrai a un comitato elettorale permanente. Ecco perché sarebbe prova di saggezza archiviare lo strumento delle primarie per la nomina del segretario del Pd. Quelle vanno bene per scegliere un sindaco, la presidenza di una regione, il candidato premier. Ma è arrivato il tempo di recuperare il senso dell’autonomia e dell’orgoglio di chi compie una scelta di campo. Di appartenenza. Di chi a un partito decide di iscriversi anche perché su quella base spera di contribuire a dettarne l’identità dentro la cronaca, o per i più ambiziosi, la storia. Non dico sia una rivoluzione, questo no. Ma almeno la sinistra eviterà di farsi battezzare il leader anche da un passante che magari nel segreto dell’urna voterebbe Salvini. In fondo, come diceva lo scrittore, “A ciascuno il suo”.

 

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