La riunione di oggi dovrebbe farci capire se e quando la Bce inizierà a ridurre gli acquisti di titoli, primo passo verso la normalizzazione della politica monetaria. Una riunione importante in quanto è la prima dopo la revisione delle linee guida, che ha introdotto lo sforamento dall’obiettivo di inflazione del 2 per cento, purchè temporaneo. La Federal Reserve, lo aveva già fatto, ma non ha ancora chiarito modalità e tempistica della fine delle misure: chi si aspettava lumi dall’attesissimo discorso a Jackson Hole del Governatore Powell a fine agosto è rimasto deluso.

L’incertezza che accomuna la politica monetaria delle due banche centrali riflette quella della dinamica dell’inflazione. Anche se la struttura dei mercati di beni, servizi e lavoro di Europa e Stati Uniti differiscono in più punti, il problema della dinamica dell’inflazione, determinante per le scelte di politica monetaria, è identico.

Negli ultimi mesi la crescita dei prezzi al consumo (3 per cento nell’Eurozona, 3,9 in Germania e 5,3 negli Usa) ha abbondantemente superato l’obiettivo del 2 per cento, comune a Fed e Bce. Fondamentale capire se sia un fenomeno temporaneo, legato alle distorsioni di domanda e offerta create dal Covid, o abbia una componente duratura.

Nel primo caso, se le banche centrali riducono troppo presto o troppo rapidamente gli acquisti di titoli, aumentando i tassi, comprimono la domanda e mettono a repentaglio la ripresa. Ma se tardano troppo l’uscita dalle misure straordinarie rischiano, nel secondo caso, che un’elevata inflazione si radichi nell’economia. E la storia insegna che per sradicarla si rischiano recessioni e crisi finanziarie.

Effetto globalizzazione

Un grafico presentato da Powell nel suo discorso, e riportato qui di seguito, è illuminante al proposito. Mostra l’andamento della crescita dei prezzi dei servizi e dei beni durevoli negli Stati Uniti negli ultimi venti anni. I prezzi dei servizi sono determinati prevalentemente da fattori locali; i beni durevoli invece costituiscono l’ossatura del commercio internazionale.

Il grafico mostra chiaramente come l’inflazione da “servizi” sia rimasta straordinariamente stabile negli ultimi 20 anni intorno alla media del 3 per cento. Diversa la dinamica dei beni di consumo ad uso durevole i cui prezzi sono diminuiti stabilmente al 2 per cento per 20 anni, per poi schizzare al rialzo col Covid, fino a una crescita del 7 per cento. Il grafico si riferisce agli Stati Uniti, ma la dinamica relativa dei prezzi è comune a tutti i paesi: la perdurante deflazione dei beni durevoli ha dunque neutralizzato la crescita dei prezzi dei servizi.

La stabilità dei prezzi di cui abbiamo beneficiato nell’ultimo ventennio è pertanto dovuta essenzialmente alla globalizzazione che ha permesso, tramite lunghe catene di produzione e le pratiche “just in time” (rete di fornitori globali per ridurre le scorte al minimo), di sfruttare le condizioni di costo più favorevoli per la produzione dei beni.

Stabilire se l’attuale inflazione sia prevalentemente temporanea o meno equivale dunque a decidere se la globalizzazione ritornerà ad avere gli stessi effetti sui costi di produzione dei beni. Io non lo credo possibile.

Un mondo diverso

La Cina non è più la manifattura low cost del mondo perché il reddito pro capite è destinato a crescere, insieme alla domanda di welfare, anche per via del rapido invecchiamento della popolazione; e il governo ha lanciato un programma di distribuzione del reddito a favore della classe media, oltre a ridurre la dipendenza dal commercio internazionale a favore di industrie domestiche considerate strategiche.

La crisi da Covid ha convinto gli imprenditori occidentali ad accorciare le catene di produzione, avvicinandole a casa, e ridurre il “just in time”. E si sottovaluta l’aumento del costo medio dell’energia che la transizione verde comporta.

C’è quindi una componente che aumenterà in modo strutturale l’inflazione prospettica, e contro cui gli strumenti di politica monetaria (tassi di interesse e liquidità in circolazione), agendo sulla domanda aggregata, sono inefficaci. Una difficoltà in più per le banche centrali; e un’incertezza in più per i mercati.

Se infatti le banche centrali non inglobassero questo elemento strutturale dell’inflazione nelle loro decisioni, e considerassero solo gli strumenti di gestione della domanda, inadatti a shock dell’offerta, ci sarebbe il rischio in più della stagflation: un termine di cui si è persa la memoria. Per ora è solo un rischio potenziale, ma certamente il più allarmante.

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