E così avremo anche il ministero della Transizione Ecologica. Tutti contenti, anche se nessuno sa bene ancora quali saranno i suoi compiti o le attribuzioni.

Come diceva una vecchia pubblicità: basta la parola. O forse sono solo questioni di bottega: appetiti e aspettative su chi gestirà i fondi del Next Generation Ue. Comunque, ben venga la transizione ecologica, visto che non credo ci sia un solo italiano contrario, almeno a parole.

Chi la paga, questa transizione? Se l’obiettivo è ridurre le emissioni nocive, o si tassa chi le produce, aumentando il costo di carbone e petrolio, le fonti energetiche più convenienti, o si sussidia l’uso delle rinnovabili.

Aumentare le tasse avrebbe un impatto mirato e immediato sulla domanda e farebbe incassare risorse allo Stato, invece di fargliene spendere. Ma la maggiore tassazione delle emissioni viene traslata inevitabilmente su prezzi e tariffe: sale il prezzo della benzina o la bolletta elettrica e tutti smettono di essere green (chiedere a Emmanuel Macron cosa è successo coi Gilet Gialli quando ha provato a introdurre una carbon tax); e non credo che molti siano disposti a pagare di più una lavatrice fatta di acciaio prodotto con idrogeno verde.

Di recente, il prezzo dei certificati di emissione europei (il prezzo che si paga per produrre emissioni nocive) è salito, ma certamente non abbastanza da penalizzare l’inquinamento; e l’aumento non è dovuto a politiche ambientali ma alla speculazione al di investitori finanziari. E si parla di una possibile “tariffa” europea all’importazione su produzioni inquinanti. Tutto qui.

Realisticamente, si seguirà la strada dei sussidi pubblici, anche sotto forma di finanziamenti o incentivi agli investimenti: soldi da distribuire che spiegano il generale entusiasmo.

Poiché i soldi da erogare sono debito pubblico, l’attenzione generale si è focalizzata sull’effetto moltiplicativo che questa spesa avrà sul Pil, condizione necessaria e sufficiente perché questo debito sia sostenibile.

Ma in quali tasche finiranno questi sussidi? Sicuramente non in quelle dei cittadini. Una fetta andrà agli azionisti di chi produce e vende energia rinnovabile, sotto forma di profitti e dividendi. In Italia, in maggioranza aziende a partecipazione pubblica, facendo così recuperare a Stato ed Enti Locali una parte dei sussidi.

Un’altra fetta a chi produce pannelli solari, pale eoliche, e la relativa elettronica. L’esperienza dell’amministrazione Obama con le rinnovabili non è di buon auspicio: si stima che larga parte dei 90 miliardi di sussidi alle rinnovabili sia finita ai produttori cinesi e asiatici, avvantaggiati dagli incentivi dei loro governi e dal basso costo dell’elettricità, prodotta anche a carbone. Non vorrei che agli italiani restino le briciole come la rendita dell’affitto dei terreni dove collocare pannelli e pale o lo stipendio di chi li installa.

Speriamo che il nuovo ministro, Roberto Cingolani, sappia fare l’analisi costi/benefici dei progetti e valutarne l’impatto sulla produttività in Italia.

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