Sul sito dell’Espresso lo scrittore Luca Bottura riassume opinioni molto diffuse: sospendere il cashback è un errore, oltre che un’ingiustizia. L’argomento di Bottura è il seguente: il premier Mario Draghi non sa che anche i poveri hanno il bancomat (soltanto alcuni, per la verità, visto che uno dei grandi problemi delle misure anti-povertà è raggiungere chi non ha conti correnti o domicilio) dunque l’idea di abolire il cashabck perché va a beneficio dei più ricchi è un errore frutto di ignoranza “classista”.

«In questi mesi sono spuntati Pos dove prima c’era solo cash/black, altro che cashback. Che un solo scontrino in più avrebbe reso questa modesta misura un successo, ché l’evasione si affronta anche un passetto alla volta», scrive Bottura. 

Anche i poveri possono andare a mangiare sushi, ma a nessuno verebbe in mente di considerare la detassazione del sushi una misura anti-povertà, perché al costoso ristorante giapponese di solito ci vanno soprattutto persone con un reddito che non ha bisogno di integrazioni a spese della collettività.

Niente di personale nei confronti di Bottura, ma in questo approccio e in questi argomenti ci sono una serie di errori diffusi che vale la pena affrontare. Perché il dibattito sul cashback è in realtà un dibattito su come si impiegano i soldi pubblici in Italia e su come si impostano le politiche pubbliche.

Il merito: aiuti (anche) a chi non ne ha bisogno

Le risorse per il cashback erano 1,75 miliardi nel 2021 e 3 miliardi nel 2022. Cifre rilevanti. E’ dimostrabile che a trarne beneficio fossero i poveri? No, e già questo fa crollare il ragionamento di Bottura. Affermare con convinzione qualcosa di indimostrabile è questione da uomini di fede, non da policymaker o giornalisti. Si può sostenere che del cashback beneficiassero anche i ricchi, determinando così un trasferimento di risorse dalla collettività (quindi anche dai redditi medio-bassi) a chi non ha bisogno di aiuto? Sì.

Attenzione: non possiamo dire che il cashback andasse solo ai ricchi, ma possiamo dire che niente impediva che fossero in prevalenza persone benestanti a trarne beneficio. E che non abbiamo proprio alcun elemento per sostenere che la misura andasse ad aiutare bisognosi.

Già la prima versione, sotto Natale, prevedeva un rimborso fino a 150 euro per chi facesse almeno 10 transazioni in poche settimane. Un incentivo ai regali di Natale, non certo all’acquisto dei beni di prima necessità (il cui consumo, per definizione, è omogeneo nell’anno senza picchi sotto le feste).

Nel primo semestre 2021 il requisito per ottenere il rimborso di 15 euro a transazione fino a un totale di 150 euro era di fare almeno 50 transazioni. Oppure quante più possibile per arrivare tra i primi 100.000 per numero di operazioni e ambire così al super premio da 1.500 euro.

Quali sono gli argomenti del governo per dire che questa misura potrebbe peggiorare la disuguaglianza? La maggior parte delle carte di credito è al Nord e nelle grandi città e tra le famiglie con reddito medio-alto e una condizione lavorativa diversa da operaio o disoccupato.

E’ vero che alcuni poveri hanno il bancomat, ma sicuramente tutti i benestanti ne hanno uno e svariate carte di credito. Secondo la Banca d’Italia, se tutte le famiglie avessero ottenuto il bonus compatibile con le loro abitudini di spesa pre-bonus, l’indice di Gini che misura la disuguaglianza sarebbe salito da 35,31 a 35,43 per cento (dove 100 indica tutta la ricchezza nelle mani di un solo individuo).

Il dato che più conta però è questo: il 73 per cento delle famiglie già spende, tramite le carte, più del plafond previsto dal provvedimento (una media di 5.900 euro a famiglia). Quindi, senza variare di una virgola i propri comportamenti, il 73 per cento delle famiglie italiane potrebbe ricevere il massimo sussidio previsto per i pagamenti in contanti. A che scopo? Boh.

Ricordiamo che la misura dovrebbe incentivare chi oggi paga in contanti per evadere a usare la carta. Ma se tre famiglie su quattro già spendono più del massimo considerato dal provvedimento, non c’è alcun vero incentivo. Il cashback, insomma, è un complicato modo per ottenere soldi dal governo in cambio di nulla, sufficientemente complicato da escludere i più poveri e con meno capacità digitali e organizzative e i più ricchi che non sono interessati alle somme in palio e al fastidio della procedura.

A combattere l’evasione, insomma, il cashback non serve.  

Il metodo: risultati non misurabili

L’aspetto più rilevante, che Luca Bottura come altri difensori del cashback non colgono, è quello di metodo: la politica del cashback non è valutabile, perché è stata disegnata in modo che sia impossibile misurarne gli effetti. Si tratta, letteralmente di soldi buttati senza controllo.

Dicono i difensori del cashback: le transazioni con moneta elettronica stanno aumentando, quindi il cashback sta effettivamente funzionando. Al di là dell’evidenza aneddotica (“conosco uno che ora paga sempre con carta”), i numeri in effetti dicono che le transazioni connesse con il cashback sono salite da 63 milioni di dicembre 2020 a 147 milioni a maggio 2021, con cifre transate passate da 2,9 miliardi 5,1. Segno che la misura funziona? Non si può dire. Sia perché non abbiamo modo di verificare che rientrano nel cashback transazioni che ci sarebbero state comunque, ma anche perché è impossibile separare l’effetto del bonus (scelgo di pagare in contanti) da tutti gli altri fattori che spingono in quella direzione.

Come anche i difensori del cashback avranno notato, nell’ultimo anno e mezzo c’è stata una pandemia che scoraggiava ogni contatto fisico, come il passaggio di moneta. Perfino i tassisti romani e i pizzicagnoli hanno dovuto rassegnarsi ad accettare pagamenti con bancomat e carte. Come facciamo a riconoscere le transazioni che sono diventate elettroniche grazie al Covid da quelle prodotte dal cashback? Non possiamo, e questo indica che la misura è stata disegnata senza preoccuparsi di come valutarne l’effetto.

Sappiamo però che il valore medio delle transazioni nel programma cashback è diminuito de 23 per cento da dicembre 2020. Difficile immaginare ragioni per le quali le persone dovrebbero voler frammentare i pagamenti, perdendo tempo (e, dal lato del negoziante, pagando più commissioni).

Una cosa però da dicembre è cambiata, il cashback incentiva a fare tantissime piccole transazioni per puntare al superpremio da 1.500 euro. Ma dal punto di vista della lotta all’evasione, o di qualunque altro obiettivo di interesse pubblico, è irrilevante che qualcuno al supermercato paghi la spesa in tre tranche da 60 euro invece che con un’unica operazione da 180. Anzi, dividere le operazioni crea solo disagio agli altri in fila e alla produttività del cassiere.

Morale: quella del cashback è la storia di una misura nata con intenzioni giuste (ridurre l’uso del contante, incentivare le persone a transazioni tracciabili) sviluppata male (incentivi ai soggetti sbagliati, sussidio a operazioni esistenti) e impossibile da misurare negli effetti. Come quasi tutti i bonus elargiti a pioggia dai governi che hanno in realtà un solo obiettivo: comprare consenso con le nostre tasse.

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