La mobilitazione per il “bonus psicologo” ha molti meriti, ma finora non ha considerato la struttura dell’aiuto proposto. Se davvero tornerà in parlamento, sarà anche l’occasione per correggere il difetto di progettazione che lo rende un aiuto agli psicologi più che ai pazienti.

Le due componenti che si rivolgono a chi non è già in cura a servizi psicologici e psicoterapici, hanno il tipico difetto dei bonus all’italiana: sostengono la domanda senza preoccuparsi dell’offerta.

Sia il “buono avviamento” (150 euro a tutti i maggiorenni che ne fanno richiesta) che il “buono sostegno” (da 1600 a 400 euro, a scalare in base all’Isee) hanno lo stesso difetto: danno soldi al potenziale paziente, ma non si preoccupano dell’effetto del bonus.

La ragione dietro l’intervento è che durante la pandemia sia aumentata la domanda potenziale di supporto psicologico ma che non tutti possano permettersi le tariffe degli psicologi. Ipotizziamo che uno psicologo chieda 50 euro all’ora.

Se ci fossero molti psicologi senza pazienti e un numero di potenziali pazienti gonfiato dal Covid, agli psicologi disoccupati basterebbe offrire tariffe più basse (40, 30, 20 euro?). Offerta e domanda si incontrerebbero senza bisogno di aiuti pubblici.

Se questo non avviene, è solo per due ragioni. O tutti gli psicologi disponibili hanno già il massimo di pazienti alla tariffa di mercato, i 50 euro del nostro esempio, e dunque non hanno ore disponibili da offrire a tariffe più basse, oppure avrebbero ore ancora vuote ma non le offrono perché non conviene (uno psicologo guadagna di più con 10 pazienti a 50 euro che con 5 pazienti a 50 euro e 10 a 20 euro).

Nel secondo scenario, gli psicologi si comporterebbero come le aziende che hanno potere di mercato e che riescono a offrire beni e servizi a un prezzo superiore al costo marginale.

Qualunque sia la spiegazione per cui il mercato non si aggiusta da solo aumentando l’offerta di servizi psicologici alla portata di tutte le tasche, la soluzione del bonus rischia di non avere gli effetti desiderati. Sia che non ci siano abbastanza psicologi, sia che questi applichino prezzi da oligopolio, un aumento della domanda avrà come unico effetto quello di far aumentare i prezzi.

Se gli psicologi, per etica professionale o per qualunque altra ragione, li tenessero fermi, l’impatto sarebbe comunque zero: alcuni beneficiari del bonus userebbero i soldi per pagare le sedute, altri si metterebbero in coda in attesa del loro turno. Tra i beneficiari, poi, alcuni che già pagavano la terapia userebbero i soldi risparmiati per altri consumi.

Morale: così congegnato, il bonus non aumenterebbe l’offerta di servizi di supporto psicologico. Andrebbe costruito in modo più creativo. Se il mercato è un oligopolio, dunque se gli psicologi hanno ore inutilizzate che non offrono per non abbassare i prezzi, lo stato potrebbe “comprarle” e distribuirle tramite voucher a chi ne ha bisogno (magari in base all’Isee).

Oppure potrebbe dare incentivi fiscali affinché siano gli psicologi stessi a fornire servizi pro bono a chi non può permetterseli, lasciando loro la valutazione.

Se invece il problema è la mancanza di psicologi, non c’è molto da fare. Perché per aumentare l’offerta ci vuole tempo, che i soldi pubblici non accorciano.

Nell’attesa, se si vuole offrire un supporto immediato, bisognerebbe coinvolgere altre professionalità (con tutti i rischi che questo comporta, visto che il web e il mondo reale pullulano di coach di vario genere e dalla misteriosa professionalità).

Dare soldi è sempre un segnale di attenzione, ma bisogna anche risolvere il problema. Perché altrimenti si spende tanto e si conclude poco.

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