Personalmente considero il vaccino una “benedizione” della nostra epoca e sono favorevole al Green Pass. Di più, credo dovrebbe essere interesse di chi lavora, e non solo, ottenerlo come garanzia ulteriore per i soggetti fragili, soprattutto se non vaccinabili, anche al fine di scongiurare nuove chiusure. Aggiungo che considero doveroso l’obbligo vaccinale per categorie di operatrici e operatori dai quali dipendono servizi pubblici essenziali.

Voglio dire che la mia posizione, al pari di altri milioni di italiani, è di sostegno alle decisioni che il penultimo e l’ultimo governo hanno assunto nel segno di un interesse collettivo anche se a scapito di alcune libertà di movimento e accesso a luoghi non idonei a offrire le cautele e tutele necessarie.

Detto ciò, non conosco Giorgio Agamben. Da anni, invece, conosco Massimo Cacciari e Carlo Freccero. Verso entrambi nutro grande stima e un sentimento di amicizia. Leggo ciò che scrivono, ascolto quel che dicono. Ecco perché di fronte al loro dissenso non già su una singola misura (il Green Pass), ma nei confronti di una lettura della pandemia la mia reazione non è voltar pagina, ma provare a capire.

Darei per scontato quanto si ripete da mesi: il nemico è il Covid, non la siringa che può salvarti la vita. Perché poi la differenza col passato sta in questo. Un secolo fa la “spagnola” si portò via cinquanta milioni di persone, le misure di prevenzione utilizzate allora furono la mascherina, la distanza fisica e lavarsi spesso le mani. Esattamente quanto ci è stato raccomandato nel tempo dell’algoritmo. Con due integrazioni che però hanno fatto la differenza: la pratica dei tamponi e il ricorso al vaccino.

Ora, è vero che anche dopo la seconda dose non si è preservati al cento per cento dalla possibilità di risultare contagiosi e di ammalarsi, altrettanto vero che da noi come in altri paesi la più grande quantità di ricoveri, forme gravi e decessi riguarda persone, anche giovani, non vaccinate per una libera scelta, per i tempi lenti di somministrazione, per l’assenza di dosi (accade nei paesi poveri) o che per motivi di fragilità non ne possono usufruire.

Dunque i motivi a sostegno della cosiddetta “immunità di gregge” paiono confortati dai numeri. Il punto, però, non sta lì, ma nel giudizio storico che persone autorevoli suggeriscono di tenere in conto. E qui diventa quasi doveroso non lasciar cadere il discorso.

Il simbolo “politico religioso”

Allora, Cacciari e Agamben ammoniscono a non trasformare il vaccino in «una sorta di simbolo politico-religioso». Spiegano che «ciò non solo rappresenterebbe una deriva anti-democratica intollerabile, ma contrasterebbe con la stessa evidenza scientifica. Nessuno invita a non vaccinarsi! Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di ‘sperimentazione di massa’ e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto”.

Aggiungono subito poi un richiamo alla Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo (15 giugno 2021) con l’invito a «evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, anche di quelle che hanno scelto di non essere vaccinate». E poiché, come detto, chi ha ricevuto la doppia dose può in potenza contagiare e ammalarsi la domanda che si pongono a chiusura è se non si corra il rischio di sdoganare quel «bisogno di discriminare” antico quanto la società e verso cui una “coscienza democratica» ha il dovere di reagire. In parte diversa la riflessione di Freccero che scorge nella crisi sanitaria un impatto rilevante sulla politica.

Muovendo da lì estende la critica sino a cogliere nell’uso della pandemia una compressione dei diritti e la via per introdurre un diverso modello di vita. Il riferimento è alle tesi di Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, e alla sua concezione del “Grande Reset”, la possibilità-necessità di costruire dopo il Covid un altro modello economico e di società.   

Bene, qualunque cosa uno possa pensare non siamo dinanzi a formulazioni sguaiate né ci troviamo a commentare qualche scombinato persuaso che un complotto starebbe per sparargli sottopelle un micro-chip capace di spiarne le uscite di casa.

Naturalmente è lecito, persino doveroso, esprimersi su ciò che si ritiene francamente inaccettabile, nel caso mio è il riferimento di Agamben alla volontà presunta di sfruttare la scienza per scopi di tutt’altra natura citando al proposito il nesso tra leggi razziali del fascismo e l’uso “scientifico” del “manifesto per la razza”. Un paradosso certo, comunque irricevibile a meno di ritenere il Covid un parto di laboratorio per assoggettare il destino delle democrazie, ma in quel caso scivoleremmo nella sfera dei terrapiattisti.

Credo anche sia più razionale distinguere tra riflessioni di ordine filosofico e quelle di natura sanitaria, fosse solo perché il più imponente piano di vaccinazione globale nella storia umana ha di per sé il carattere di una sperimentazione, seppure condotta nel rispetto di garanzie e conoscenze che solo il nostro tempo è stato in grado di elaborare.

La sfera del corpo

Al netto di questo, però, esiste un livello del confronto che investe le strategie di contenimento del contagio, compreso il contenuto della democrazia e dei principi costituzionali sulle libertà della persona. Il che in sé non è una blasfemia dal momento che in ogni questione partecipe dell’autonomia del soggetto, particolarmente quando investe la sfera del corpo – il proprio – e della salute – quella propria e altrui – sollevare interrogativi sulle azioni esercitate dal potere costituito (autorità sanitarie, governi, parlamenti) appare legittimo e spesso inevitabile.

Anni addietro fu così nella riflessione sulla fecondazione medicalmente assistita, lo è oggi nell’affrontare norme di legge sul fine vita e l’eutanasia. La domanda seria è come si affronta questa discussione. Cioè, anche sposando una o un’altra tesi che dibattito pubblico è saggio impostare per evitare che una materia tanto sensibile si risolva in una polarizzazione senza sostanza? Riuscirci non sarà semplice, ma è possibile: penso alla posizione espressa ancora ieri dal leader della Cgil, Maurizio Landini, e allo scambio stimolato da un precedente intervento di Marco Bentivogli, esempio di due figure autorevoli a base di un confronto rispettoso.

Tanto più ha il dovere di farlo un’etica della politica che deve avere come traguardo la riduzione delle povertà e delle malattie in una cornice di espansione dei diritti e dell’autonomia della persona. Per questi motivi credo che ribaltare in un calderone indistinto i fascisti col megafono a istigare le piazze e chi argomenta sui dubbi circa una possibile regressione di alcuni principi di libertà sia un errore da evitare con ogni mezzo. Primo perché rischia di consegnare ai seminatori d’odio, fuori e dentro la politica, chi si interroga sulla funzionalità e legittimità di alcune strategie volte a contenere il virus. Secondo, perché la democrazia ha bisogno di sorreggere e alimentare la dialettica tra punti di vista anche decisamente lontani e quando un dibattito simile si presenta la sola cosa da non fare è risolverlo in una guerra di scomuniche.

A scuola imparavamo che dopo il terremoto di Lisbona, quello che cancellò un quarto di popolazione della città, Voltaire ragionò attorno al problema del “male sulla terra”. Ne risentirono filosofia, storia, teologia e parecchio altro. Fu quel che si definisce uno spartiacque destinato a distinguere moralità e principi tra un “prima” e un “dopo”.

E allora lasciamo da parte paragoni lontani, ma se pure noi siamo alle prese con una frattura del modo di concepire il lavoro, i consumi, la conoscenza, le libertà e le forme stesse della socialità, ecco, se di questo si tratta, allora converrà avere ben chiara la distinzione tra un filosofo, uno scienziato e chi approfitta del momento per aizzare emotività e disperazioni. Farlo non potrà che recare un beneficio alla nostra convivenza e alla qualità della nostra democrazia.   

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