La ‘ndrangheta è questione di cui si devono occupare i tribunali». Questa frase io l’ho sentita per lungo tempo sin da quando portavo i pantaloncini corti. L’ho sentita in Calabria, nella mia terra, e l’ho sentita ripetere nelle regioni del nord. Poi, dopo che molti hanno (e abbiamo) scritto libri e articoli, fatto convegni e lezioni nelle scuole le cose sono cambiate, e s’è capito che la ‘ndrangheta non è una questione che interessa solo i magistrati. Lo hanno capito in Calabria, lo hanno capito al nord. Per questo sono rimasto davvero stupito e sorpreso leggendo quella frase in un’intervista di Amalia Bruni, candidata alla presidenza della regione Calabria in coalizione con Pd, Cinque stelle e art. 1 concessa ad Alessia Candido di Repubblica. È un’affermazione incomprensibile in bocca a chi dice di essere pronta a guidare la regione Calabria. Dovrebbe sapere cos’è la ‘ndrangheta visto che vive a Lamezia Terme, città il cui consiglio comunale è stato sciolto per tre volte.

Il colpo di reni

Provo a dire la mia opinione su un argomento che studio da molti decenni. Che ci sia bisogno di un cambio di marcia nella lotta alla ‘ndrangheta lo sanno prima di tutto i magistrati i quali, giustamente, avvertono che da soli non ce la possono fare a vincere la battaglia e invitano le istituzioni, a cominciare dalla scuola, a spiegare agli studenti cosa sia la ‘ndrangheta e a studiarla per poterla meglio combattere. Da decenni oramai ci sono cultura e attività antimafia che agiscono indipendentemente dalla magistratura, a volte affiancandola a volte criticandola perché non sempre la magistratura ha fatto bene. In Calabria Peppe Valarioti e Giannino Losardo nel 1980 sono stati uccisi dalla ‘ndrangheta perché la magistratura s’è voltata dall’altra parte o era collusa. Basta leggere l’ultimo libro di Danilo Chirico, Storia dell’antindrangheta, edito da Rubbettino, per avere un’idea dell’imponenza della lotta contro i malandrini.

Libera

In Italia c’è un’associazione, Libera, il cui capo è un prete, don Luigi Ciotti, che fa tantissime attività e ogni 21 marzo legge tutti i nomi delle vittime innocenti delle mafie. Sono quasi tutti meridionali, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, uomini politici o delle istituzioni, e gente comune, donne e uomini con la schiena diritta. Senza l’impegno di Libera non ci sarebbe in Italia la legge che prevede la confisca dei beni appartenuti alle mafie.

In Italia c’è un’associazione che si chiama Avviso pubblico che riunisce sindaci e presidenti di regione contro le mafie, che fa in tutte le regioni e i comuni associati iniziative e concrete scelte amministrative per impedire che la mafia entri nelle istituzioni. Da qualche anno a questa parte pubblica un volume che racconta dei sindaci minacciati dalle mafie, e sono davvero tanti.

Se della ‘ndrangheta si devono occupare i tribunali, Libera e Avviso pubblico sono inutili. La conseguenza è che non c’è necessità di tenerle in vita. Non credo che la dottoressa Bruni voglia arrivare a tanto. Se fosse così un’analoga sorte dovrebbero subire i tanti corsi universitari che ci sono negli atenei di molte città italiane dove s’insegna cos’è il potere mafioso. E cosa si dovrebbe dire agli studenti che sempre di più chiedono e fanno tesi sulle mafie? E le tre case editrici calabresi che pubblicano libri sulla ‘ndrangheta dovrebbero smettere di pubblicare libri con quell’argomento?

La magistratura

In Calabria non c’è solo la magistratura a fare la lotta alla ‘ndrangheta. C’è, ad esempio, la chiesa che da molto tempo a questa parte ha, seppure con lentezza, superato le criticità del passato e ora mostra un reale impegno. C’è ancora tanto da fare, ma la strada è tracciata. E non a caso in Calabria, a Sibari, papa Francesco ha detto le parole più forti che un papa abbia mai pronunciato contro la ‘ndrangheta. In Calabria il Consiglio regionale ha istituito una commissione antimafia. Mi piacerebbe sapere se nella prossima legislatura si confermerà o no questo impegno.

Io mi auguro che il Pd dica cose diverse dalla sua candidata su questo argomento, e mi attendo che Enrico Letta pronunci parole chiare perché il Pd ha una sua storia antimafia e molti amministratori, dirigenti, iscritti sono impegnati su questo terreno. A tutti questi non si può dire: «Contrordine amici e compagni, adesso della ‘ndrangheta ci pensano i tribunali. Voi fate altro».

Francamente non so spiegarmi perché la dottoressa Bruni abbia detto che «per i clan c’è un terreno fertile dettato anche dal bisogno. Se non hai lavoro e la ‘ndrangheta te lo offre, magari ti pieghi». Magari fosse solo questo il problema della ‘ndrangheta! È, invece, una gigantesca questione che riguarda colletti bianchi e segmenti importanti di professionisti che hanno cointeressenze economiche che s’intrecciano con poteri criminali, visibili e invisibili, massonerie deviate, che penetrano nelle istituzioni e nei partiti, che insidiano la democrazia e le rappresentanze.

Un tempo le classi dirigenti dei partiti di massa erano capaci di leggere i mutamenti del potere criminale e di inventarsi anche modi innovativi di contrastarlo. Oggi c’è una drammatica carenza di classi dirigenti in grado di orientarsi dentro i mutamenti di una Calabria criminale o che con il crimine convive e collude.

E la classe dirigente del Pd è dentro questo quadro perché non ha ancora compreso fino in fondo che la lotta alla ‘ndrangheta non si fa solo plaudendo ad ogni ordinanza di custodia cautelare, ma guardando anche con attenzione diversa dal passato a tanti aspetti e adesso che siamo in campagna elettorale, per esempio, alle formazione delle liste, controllando ad uno ad uno i candidati.

Non basta dire, come fa la candidata, che «uno che è indagato deve farsi da parte anche se si sente innocente per non mettere in difficoltà gli altri» perché ci vuole davvero molto di più. I più grandi uomini della ‘ndrangheta e anche altri mafiosi come Cutolo, Riina e Provenzano sono morti sentendosi innocenti. Io non ho mai conosciuto un mafioso che non si sentisse innocente. Persino Buscetta, che pure ha denunciato con vigore gli uomini di Cosa nostra, disse a Giovanni Falcone: «Io non mi devo pentire di niente». Appunto: si sentiva innocente!

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