La questione riguarda più noi giornalisti che loro, i politici al governo. Ma forse dovremmo interrogarci, insieme ai lettori, sui limiti da porre all’uso che il potere fa di quel che resta del nostro settore, martoriato da cali di pubblicità e di lettori, dunque più fragile che in passato.

Lo spunto lo offre una riga di rara onestà nell’articolo di Monica Guerzoni, sul Corriere della Sera di ieri: «Alle dieci di sera, determinato ad arrivare a Bruxelles con la valigia mezza piena e la credibilità non sfregiata, Giuseppe Conte chiama i giornalisti dei principali quotidiani. Vuole convincerli che la maggioranza sul Mes “ha dimostrato forte coesione” e non è stata, per lunghe e drammatiche ore, sospesa sul baratro della crisi».

Poche parole di una cronista trasparente, forse un piccolo gesto di ribellione, fanno crollare una fragile barriera di ipocrisia: su tutti i grandi giornali campeggiano fin dalle prime pagine i titoli dedicati al “colloquio” tra il cronista politico e il presidente del Consiglio, da Repubblica a La Stampa, anche lo stesso Corriere della Sera presenta l’articolo come “colloquio”.

Condizionare la stampa

Non sappiamo se il premier, dopo una giornata impegnativa in parlamento, si sia preso la briga di chiamare ogni singolo cronista o direttore oppure se, come talvolta accade, il suo portavoce Rocco Casalino abbia veicolato un testo o un audio con la versione del presidente del Consiglio che poi ognuno ha gestito a modo proprio, applicando il livello di filtro che riteneva deontologico.

Resta il fatto che, come scrive Monica Guerzoni, il presidente del Consiglio si è attivato, direttamente o tramite i suoi collaboratori, “per convincere” la stampa a dare la lettura che piaceva a palazzo Chigi di una giornata che a tutti era fino ad allora parsa forse il punto più basso del potere personale di Giuseppe Conte: per la prima volta da quando c’è la maggioranza Pd-Cinque stelle, il premier è stato sfidato in modo aperto da Matteo Renzi e non è mai riuscito a completare il Consiglio dei ministri che doveva approvare l’accentramento dei poteri sulla gestione del Recovery fund nella presidenza del Consiglio. Conte chiama – o fa chiamare – e ottiene che sia la sua lettura della giornata a finire nei titoli di prima pagina.

Dichiarazioni del presidente del Consiglio, che siano on the record oppure off, sono difficili da ignorare per chi scrive di politica. Tutto sta nel modo di gestirle: immaginiamo cosa sarebbe successo se, in altri tempi, il Corriere della Sera avesse scritto «Silvio Berlusconi ha chiamato per far cambiare il modo di leggere la giornata politica». Con il governo Conte, complice la pandemia, si assiste al degrado forse definitivo del rapporto tra stampa e potere.

Fabio Frustaci/LaPresse/POOL Ansa

Quantità e qualità

Nella rassegna della Camera sono censite 54 interviste a Giuseppe Conte nel 2020, parecchie, considerando che nel frattempo il premier ha tenuto decine di conferenze stampa durante la pandemia e che la cifra non include tutti i retroscena, i colloqui e gli articoli ispirati da palazzo Chigi. Per il 2015 la rassegna stampa della Camera conta 26 interviste all’allora premier Matteo Renzi. Nel 2012 ne risultano 18 a Mario Monti, allora presidente del Consiglio.

Oltre alla quantità, conta la quantità, e la qualità dipende dal metodo. Le conferenze stampa a palazzo Chigi sono indicative del rapporto tra governo e media in questa fase. Tutto è costruito per limitare ogni fastidio da parte dei giornalisti che, spiace dirlo, si adeguano alle regole imposte senza fiatare.

Le conferenze stampa via Zoom e Skype sono durate poco, giusto il tempo del lockdown, poi siamo tornati a quelle in presenza: se ci pensate è assurdo che ci siano dei giornalisti fisicamente stanziali a palazzo Chigi, a Roma, tenuti a pascolare per ore in sala stampa in attesa che un messaggino del portavoce convochi l’adunata, in un momento imprecisato e imprevedibile della serata.

La conferenza viene trasmessa in diretta streaming, non è segreta e non c’è alcun particolare beneficio nell’interloquire dal vivo, e allora perché non si può fare via Zoom?

 Perché si romperebbe il tacito patto tra premier e “chigisti”, gli addetti a palazzo Chigi, che giustificano il proprio ruolo proprio con la prossimità al potere, anche quando questa è anacronistica nell’epoca digitale: fare le domande in presenza non permette di ottenere più informazioni, ma se soltanto chi è fisicamente presente può fare la domanda la “fonte” – cioè palazzo Chigi – mantiene il suo potenziale di cattura sul cronista.

La domanda al premier invece che essere un atto di controllo sul potere diventa un’elargizione del potere al controllore, che dunque così perde la sua funzione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il 3 dicembre c’è stato il record di 993 vittime da virus ma, nella conferenza stampa, nessuna domanda ha toccato l’argomento e dunque Conte non ha dedicato una sola parola a quei morti, ma si è discusso a lungo dell’uso che la moglie del premier fa della scorta, del Mes e del rimpasto di governo. Il potere ha sempre l’ambizione di condizionare la stampa, ma sembra che la stampa abbia perso l’ambizione di condizionare, e soprattutto controllare, il potere. Il problema, insomma, non è Conte. Siamo noi giornalisti.

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