Sono trascorsi 13 anni dall’arresto e dal pestaggio di Stefano Cucchi alla sentenza della Cassazione che scrive la verità giudiziaria nella sua versione definitiva. Il caso Cucchi non è solo un delitto e non è solo un processo. La storia di questo pestaggio brutale e degli eventi che sono seguiti rivelano molte cose del paese in cui viviamo. 

I silenzi delle istituzioni, le menzogne, i depistaggi, l’accanimento dei leader della destra contro la famiglia che rivendicava il proprio diritto a ottenere giustizia. Da un lato le pulsioni più sconce del potere all’autoconservazione, dall’altro la difesa dell’onore delle divise da parte di chi puntava solo a raccogliere una manciata di voti in più.

Nel mezzo il dolore dei genitori e della sorella di Stefano Cucchi, costretti a subire ogni genere di offesa, determinati però ad andare avanti fino alla fine del percorso nonostante l’arroganza di chi definiva Stefano solo un tossico che se l’è cercata. In altre parole, chi briga per l’impunità dei potenti e chi lotta per i propri diritti e per le persone che non hanno voce in capitolo su niente. 

Lessico brutale che esprime un sentimento purtroppo diffuso che incatena i più fragili a un’esistenza senza diritti garantiti. Sono gli stessi che restano indifferenti a un sistema carcerario che tratta i detenuti come scarti e lascia che i penitenziari siano solo discariche sociali. 

Ilaria Cucchi ha combattuto per suo fratello e ha aiutato altri familiari che avevano patito la medesima ingiustizia a fare lo stesso. La violenza se praticata da chi deve assicurare il rispetto del diritto e della costituzione è ancora più intollerabile. L’idea che chi compie possa beneficiare di complicità dei superiori per garantirsi l’impunità e difendere il buono nome dell’istituzione è fuori dal perimetro delle regole democratiche. 

Il G8 di Genova, la macelleria messicana della scuola Diaz, e la morte di Federico Aldrovandi, sono episodi che precedono di anni l’arresto di Cucchi e il suo pestaggio in caserma. Ma invece che evitare la ripetizione di fatti simili non è stato fatto nulla per il ripetersi di nuovi. Tutte le volte c’è sempre il tentativo di assicurare impunità ai colpevoli.

Troppe ambiguità hanno accompagnato il caso Cucchi. Se l’Arma avesse agito fin da subito in autonomia per capire davvero la dinamica dei fatti di quella notte la vicenda giudiziaria si sarebbe chiusa in pochissimi giorni. E invece generali, colonnelli, marescialli, hanno lasciato che si svolgesse un processo contro gli agenti della polizia penitenziaria, imputati ingiustamente. Hanno lasciato che finissero sul patibolo al posto loro pur di farla franca. I carnefici perfetti in una vicenda che qualcuno voleva archiviare come semplice faccenda di droga e abusi carcerari. 

Se oggi c’è una sentenza definitiva di omicidio lo dobbiamo certamente al coraggio della famiglia di Stefano, ma anche ai carabinieri che hanno rotto il muro di silenzio dell’Arma. Francesco Tedesco è sicuramente il testimone, che da imputato, ha cambiato il corso degli eventi con un atto, dire la verità, che non dovrebbe avere nulla di straordinario. 

Il caso Cucchi non è chiuso, tuttavia. C’è ancora un processo sui depistaggi: chi sono gli ufficiali che hanno coperto i picchiatori in divisa? Ma soprattutto si attendono le scuse degli sciacalli che hanno usato il corpo di Stefano Cucchi per fini elettorali. Le scuse per rispetto del dolore dei familiari dovrebbero essere un gesto normale in un paese sano. I silenzi anche dopo la sentenza di chi ha difeso i picchiatori dell’Arma sono il sintomo di un’Italia malata. 

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