La cattura di Matteo Messina Denaro, dopo trent’anni di latitanza, ha suscitato molte reazioni, di tipo diverso. C’è chi si è interrogato, anche su questo giornale, sul senso politico della cosa. E molti discutono su possibili significati e avvenimenti reconditi, nascosti, pensando a trattative, rese condizionate e ipotesi simili. Ma moltissimi hanno avuto reazioni di esultanza, a partire dalle forze dell’ordine che hanno condotto l’operazione, per arrivare ai cittadini e ai componenti della commissione Antimafia, di cui i giornali riportano un brindisi. In realtà, queste reazioni non sono un fatto nuovo, né incomprensibile.

Da parte delle forze dell’ordine, che compiono un lavoro pericoloso, spesso lungo e difficile, che hanno pagato un tributo di sangue alla lotta alla mafia, la reazione è comprensibile, e anzi più che legittima. Da parte dei parenti delle vittime civili, non solo è comprensibile la reazione di giubilo e sollievo, ma forse tutti noi, che fortunatamente non siamo parenti di vittime, dovremmo pensare immediatamente a loro, quando avviene un fatto del genere, dovremmo avere un pensiero e forse parole pubbliche per il loro dolore e la dignità con cui lo sopportano. E reazioni simili si sono avute, per ricordare un caso recente, quando è arrivato nel nostro paese Cesare Battisti.

Ma è più controversa la reazione di giubilo di chi occupa cariche pubbliche legate alla rappresentanza democratica e allo Stato di diritto, cioè di chi sta in commissioni parlamentari e di chi ha incarichi di governo. L’amministrazione della giustizia dovrebbe essere una caratteristica ovvia e naturale di un regime democratico. E l’amministrazione della giustizia di un paese democratico dovrebbe essere al tempo stesso efficiente (perché in fondo uno degli scopi della giustizia è una certa sicurezza, contemperata al rispetto dei diritti, anche dei rei) e improntata a principi di garanzia, trasparenza e rispetto dei diritti di tutti. L’amministrazione della giustizia di un paese democratico dovrebbe essere differente sia dalla vendetta privata, sia dalla guerra fra bande.

Sobria soddisfazione

Allora, se le cose stanno così, quale dovrebbe essere la reazione del cittadino non coinvolto e del politico che lo rappresenta alla cattura di un pericoloso e spietato latitante di un’organizzazione criminale che, prima di tutto, mette in questione la legittimità dello Stato democratico, tentando di sostituirsi ad esso, nel garantire una perversa sicurezza e nel competere per il monopolio della violenza?

Può essere una reazione di cauta soddisfazione, la reazione di chi vede le cose andare a posto. Ma non può essere una reazione di giubilo e di festeggiamento da tifoso. Perché una reazione del genere è spropositata, esagerata e fuori fuoco per molte ragioni. Se la cattura era un atto dovuto, normale, non c’è niente da festeggiare. Se l’amministrazione della giustizia democratica è un fatto dovuto e normale, perché esultare? Se la cattura era eccezionale (e lo è, naturalmente, dati i trent’anni di latitanza), il festeggiamento è amaro e ridicolo. Che cosa c’è da festeggiare nell’aver riparato un fallimento trentennale?

Forse c’è da rimboccarsi le maniche, non da festeggiare. In entrambi i modi, siamo fuori dall’ethos democratico, e dentro il tifo da stadio, che non è una caratteristica principale dello Stato di diritto. È stata data pubblicità al biglietto (ancora un biglietto, ancora un pizzino: quest’uomo è un grafomane, fra le altre cose) in cui Matteo Messina Denaro testimoniava, chissà a beneficio di chi, del trattamento rispettoso ricevuto dalle forze dell’ordine.

Quel biglietto è offensivo per qualsiasi cittadino, giacché quel trattamento la nostra democrazia lo dovrebbe riservare a chiunque, quale che sia il delitto del quale è accusato. E che non l’abbia fatto, per esempio nel caso di Stefano Cucchi, ci dovrebbe ricordare quant’è importante che lo faccia. E che noi lo facciamo, noi rispettiamo tutti, al contrario dei mafiosi.

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