Quando si parla di Pronto soccorso (Ps), le immagini che si affacciano alla mente sono due. La prima è quella eroica delle serie Tv, nostrane o americane, dove quasi ogni paziente è un caso drammatico e dove medici e infermieri trascorrono metà del loro tempo a rianimare persone in pericolo di vita e l’altra metà a intrecciare relazioni sentimentali tra di loro.

La seconda è quella delle pagine dei giornali e dei media. Le lunghe attese, le barelle in corridoio, i pazienti esasperati (a ragione o a torto) che aggrediscono gli operatori, la malasanità. Si tratta in entrambi i casi di immagini distorte, anche se è innegabile che ognuna delle due fotografie è una parte della realtà. Giusto per fare un esempio, i casi di arresto cardiaco da rianimare sono meno di uno ogni mille accessi al Pronto soccorso, e di questi non sopravvive più di un paziente su dieci (contro quasi l’80 per cento che si è calcolato sopravvivano in serie come Er o Gray’s Anatomy).

Le persone con sintomi gravi e potenzialmente a rischio di vita (i cosiddetti codici gialli e codici rossi) si aggirano intorno al 15 per cento. La maggior parte degli altri accessi si divide invece tra problemi minori (piccoli traumi, bambini con la febbre o il mal di gola, uomini e donne con il mal di testa o il mal di schiena…) e persone, prevalentemente anziane, con malattie croniche riacutizzate e bisogni assistenziali. Una routine che porta con sé insieme agli aspetti clinici la necessità di valutazioni sociali, di interazioni personali e di decisioni difficili che possono avere un forte impatto sulla vita delle persone, come quando si deve decidere se ricoverare o rimandare a casa un anziano fragile, un paziente psichiatrico, un homeless (che poi una casa dove tornare proprio non ce l’ha!).

Cittadini

Partendo da queste premesse vorrei proporre una riflessione sul Pronto soccorso in Italia, da articolare in tre puntate che guarderanno al problema dal punto di vista degli attori principali che calcano il palcoscenico di questo teatro dell’umana sofferenza: i pazienti, gli operatori sanitari e (dietro le quinte), i politici e le istituzioni.

È fuori discussione che il primo sguardo di cui bisogna occuparsi è quello dei cittadini che accedono al Ps 20 milioni di volte all’anno, dimostrando la centralità che questa struttura ha nella risposta ai problemi di salute degli italiani. Lo fanno per reale bisogno? Per comodità? Per la mancanza di una risposta alternativa altrettanto pronta ed economica?

La pandemia di Covid-19 sembra avere dato una risposta a questa domanda, e non è una risposta incoraggiante. Nel primo semestre 2020 infatti gli accessi ai Ps si sono più che dimezzati. Se è vero che tra chi non si è recato in ospedale per paura del contagio ci sono stati anche dei casi gravi, è fuori discussione che chi non si è rivolto al Ps in quel periodo aveva nella grande maggioranza dei casi un disturbo minore. Dato che queste persone non si sono rivolte neppure ai loro medici curanti, che hanno anche loro avuto un crollo degli accessi, si deve concludere che si siano semplicemente tenute il loro problema per il tempo necessario a rendersi conto che non c’era bisogno di un dottore e che tanti piccoli malanni in fondo passano da soli.

Il presidio più efficace

Resta a questo punto una sola risposta: non solo per le vere emergenze, il Ps rappresenta il presidio più efficace, più efficiente e meno costoso (per il cittadino non per il sistema) per rispondere ad un problema acuto (ribadisco acuto, non necessariamente grave) di salute. Si può decidere quando andare: sera, notte, festivi, senza perdere turni di lavoro o lo spettacolo preferito alla Tv. Si possono avere in una sola volta e in un solo luogo tutti gli esami e le visite specialistiche necessari. Quando si paga un ticket (meno di una volta ogni cinque) il costo è spesso inferiore a quello di una sola delle diverse prestazioni ricevute. Infine, non raramente, il Ps offre un’occasione per un ricovero non urgente, saltando la lista per i ricoveri in elezione. Forse questa è una visione un po’ estrema del problema, ma è difficile dare una diversa interpretazione dei dati emersi durante la pandemia: quasi 10 dei 20 milioni di persone che si recano in Ps ogni anno lo fanno per situazioni che potrebbero attendere e per cui esistono altri percorsi (purtroppo in genere o più faticosi o più cari).

Certo, esiste un rovescio della medaglia che, purtroppo, non ricade solo su chi utilizza a sproposito le strutture pubbliche, ma al contrario penalizza chi ne ha maggiore bisogno. I tempi di permanenza in Ps sono sempre più lunghi e l’attesa di un posto letto può durare diversi giorni (non è solo un problema di scomodità perché è documentato che la durata di questa attesa correla con la mortalità). La privacy è un’illusione nei corridoi affollati di barelle, e il semplice decoro è spesso messo a repentaglio. Non tutte le strutture sono adeguate. Non tutto il personale ha sempre un comportamento professionale. Ci torneremo.

Medico d’urgenza, l’autore è stato per 15 anni direttore del Pronto soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano.

 

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