Due Leghe? Un gioco delle parti? Un espediente tattico? Un drastico cambio di strategia? Sono molti gli interrogativi sollevati dalla repentina modifica di atteggiamento di Matteo Salvini delle ultime settimane, e altrettante le risposte avanzate dagli osservatori. Quelle di chi non  nasconde la propria avversione al leader del Carroccio convergono sulla tesi dello spregiudicato e temporaneo espediente, dell’affrettato maquillage escogitato con l’unico scopo di non finire all’angolo e, quel che più conta, di non lasciare la gestione e distribuzione dei fondi del Recovery Plan a concorrenti che avrebbero potuto servirsene per costruire rapporti privilegiati con la platea dei ceti produttivi settentrionali, tradizionale serbatoio di consensi e sponsorizzazioni per il partito.

Chi naviga nell’area del centrodestra o ai suoi confini propende invece per uno spostamento più ponderato e forse irreversibile verso il centro della scena politica, volto alla ricerca di una più solida legittimità istituzionale che potrebbe costituire la premessa della guida di un futuro esecutivo di centrodestra non più osteggiato da presidenti della Repubblica, eurocrati di Bruxelles e mercati finanziari. In ambedue i casi, la convinzione sottintesa agli argomenti esposti è che, nell’attuale situazione e dopo l’appello di Mattarella, la Lega non potesse evitare di entrare nel governo Draghi.

Le cose stanno davvero così?

Chi ha deciso cosa

Matteo Salvini, Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Se si sottoscrive questa ipotesi, è d’obbligo chiedersi se i dirigenti leghisti, e il segretario in primis, abbiano preventivamente calcolato il rapporto tra i benefici e i costi che l’operazione è destinata a comportare, o se abbiano agito d’impulso. E se la scelta sia stata immediatamente condivisa dall’intero vertice, come ufficialmente si sostiene, oppure sia il frutto di un compromesso che qualcuno ha voluto e qualcun altro ha subito.

Comunque stiano le cose, alcuni dati appaiono certi. Il primo è che la giravolta che ha condotto il partito populista per eccellenza della scena politica italiana a sostenere un governo capeggiato dalla figura più emblematica dell’establishment finanziario europeo non comporterà a breve, emorragie a livello di apparato.

Nessuna rivolta di duri e puri è all’orizzonte, nessuno smottamento simile a quello che sta disgregando i Cinque Stelle è prevedibile in tempi brevi.

Le fuoriuscite di un deputato nazionale e di uno dell’europarlamento sono destinate a rimanere eventi pressoché isolati e, stando ai sondaggi, un 70 per cento degli attuali potenziali elettori leghisti è favorevole alla decisione presa.

Il secondo punto fermo è che, dicendo sì a Draghi, il partito ha tagliato definitivamente i ponti con quella cospicua fetta di ex sostenitori che già se ne era allontanata dopo le elezioni europee del maggio 2019, non condividendo la rottura del contratto con il M5s, con conseguente siluramento del primo governo Conte, e la connessa ricucitura con Forza Italia e centristi.

Un terzo riscontro già constatabile è la cruciale battuta d’arresto che, con il proclama del Papeete, Salvini ha inferto al progetto che aveva caratterizzato sino a quel momento la sua segreteria, ovvero l’estensione della sua offerta politica all’intero territorio nazionale. Affondando su consiglio e pungolo di Giancarlo Giorgetti il cosiddetto governo populista, che a quel tempo godeva del consenso di due terzi degli italiani, la Lega ha infatti dimostrato di voler rispondere prima di tutto, se non esclusivamente, agli interessi e alle aspettative degli ambienti economici del Nord – che vedevano i provvedimenti ispirati dal M5S come il fumo negli occhi – e ha iniziato a congedarsi dall’elettorato di protesta raccolto al Centro-Sud in concorrenza diretta con i grillini.

Un congedo ribadito dallo scarsissimo impegno profuso nel dotarsi, dagli Appennini in giù, di una classe dirigente locale formata ed autonoma nelle scelte (ancora oggi, gran parte delle strutture della Lega nelle regioni meridionali sono guidate da commissari paracadutati dalla centrale milanese).

Le incognite sull’agenda Lega 

Foto Fabio Frustaci/LaPresse/POOL Ansa17 febbraio 2021 Roma, Italia Politica Senato - Voto di fiducia su governo DraghiNella foto: Mario Draghi, Giancarlo Giorgetti Photo Fabio Frustaci/LaPresse/POOL AnsaFebruary 17, 2021 Rome (Italy) Politics Senate - Vote of confidence on Draghi's governmentthe pic: Mario Draghi, Giancarlo Giorgetti

Accanto a questi elementi ormai appurati, la situazione offre però alcune incognite di notevole peso. C’è da vedere, innanzitutto, se e in che misura Draghi accoglierà le istanze care all’elettorato leghista, incluso quel 70 per cento che ne ha digerito senza patemi la svolta. Per adesso, i segnali sono contraddittori.

L’aver destinato Giorgetti al ministero dello Sviluppo economico sembra venire incontro ai desiderata leghisti, e anche i timidi accenni alle responsabilità dell’Unione europea in materia di politiche migratorie non dovrebbero essere suonati sgraditi; ma il no alle riaperture degli esercizi commerciali e delle strutture ricreative e il collegato richiamo del presidente del consiglio al leader esternatore vanno in direzione opposta.

C’è poi il problema di quel 30 per cento di simpatizzanti che per ora non si è allineato all’entusiasmo della Lega governista per un esecutivo dominato da figure tecniche: le sirene di Fratelli d’Italia sono cresciute di intensità e un esodo verso la formazione di Giorgia Meloni, che ha dalla sua la carta della coerenza e dell’intransigenza identitaria, è entrato largamente nella sfera del probabile.

Di fronte a questo panorama, il compito di Matteo Salvini non appare dei più semplici. Perché la scommessa su cui è stato indotto a puntare abbia successo, gli è essenziale conservare l’aureola di leader di primo partito nelle preferenze degli italiani, e per ottenere questo risultato non ha che una strada: saper puntare sui due ben noti registri di una politica “di lotta e di governo”, in un momento in cui su un versante lo insidia Giorgia Meloni, certamente disposta a giocare ad una gara al rialzo su qualunque tema si presti alla polemica e alla protesta, e sull’altro gli fanno da contraltare Zingaretti e Di Maio.

Se l’equilibrio fra le due opzioni risultasse instabile e Fratelli d’Italia riuscisse nel sorpasso, la già molto problematica ipotesi di un futuro da capo di governo, e lo stesso mantenimento della guida della coalizione di centrodestra, subirebbero un duro colpo, di cui gli avversari-concorrenti esterni ed interni, Forza Italia ed affini in testa, non mancherebbero di approfittare.

Il rapporto di Salvini col partito

A tutto questo si aggiunge, per chi voglia capire quale futuro attende la Lega, un ulteriore elemento di incertezza, legato al rapporto che Salvini ha, oggi, con il suo partito.

L’intensa personalizzazione della figura del capo ha, sin dalle origini, contraddistinto il Carroccio, fino a diventarne un marchio di fabbrica: lo dimostra il completo e rapido fallimento del tentativo di Roberto Maroni di procedere in direzione opposta, valorizzando la collegialità e le autonomie locali. E questo è un fattore su cui l’attuale segretario può fruttuosamente puntare, come ha sempre fatto concentrando su se stesso l’attenzione dei media, potenziando al massimo l’impatto della sua figura sui social e inserendo il proprio nome nel simbolo elettorale.  

Ciò fa sì che, fra i militanti, la sua parola continui a dettare legge in modo indiscusso: niente correnti, niente fibrillazioni, niente indiscipline. Ma assai meno sicuro è che Salvini possa imporre le sue visioni alla cerchia ristretta dei dirigenti “che contano” fra le sue file.

È difficile capire se di questo gruppo – che ha Giorgetti come capofila e il presidente del Veneto Luca Zaia come figura più esposta, ma può contare anche su altri autorevoli amministratori locali – Salvini sia oggi il referente privilegiato, il leader o l’ostaggio. E se la sua idea di Lega, o perlomeno quella che sino a pochi mesi o settimane fa ha promosso e incarnato, tanto da essere considerato uno dei due esponenti più in vista del fronte populista europeo, accanto a Marine Le Pen, corrisponda davvero a quella coltivata dai suoi collaboratori.

In altre parole, c’è da chiedersi se di Lega, oggi, ne esista una sola – che comunque difficilmente potrebbe essere liquidata, come qualcuno vorrebbe, come un partito di estrema destra – oppure ce ne siano due. E, in questo secondo caso, fino a quando esse siano destinate a convivere.

© Riproduzione riservata