«È tornata la splendida ossessione del centro», così intitola l’editoriale di Domani, firmato da Nicola Imberti, in una domenica soleggiata che dovrebbe orientare all’ottimismo.

Salvo che la nube nera salita sabato 9 ottobre a coprire il cielo politico italiano, in una Roma che ha rivisto gli squadristi, diminuisce l’ottimismo e soprattutto non produce sentimenti molto moderati.

Torna in rete la magnifica vignetta di Novelli in cui Sandro Pertini, vestito come sempre in modo inappuntabile ma stringendo una clava, su una nuvoletta grida “Fammi tornare giù per due minuti, solo due minuti”.

La conclusione di quell’editoriale, in linea con come appare finora anche una certa tendenza della realtà, è che quella ossessione viene giudicata «praticamente irrealizzabile» prefigurando che «rimarrà un miraggio» e sostenendo che perfino Calenda a Roma non ha avuto successo per «centrismo» ma per dimostrazione di cultura di governo.

Come sempre nelle questioni controverse c’è del vero se si spinge verso l’interpretazione favorevole così come se si spinge per l’interpretazione sfavorevole.

I leader del centrismo

Non resta che selezionare un po’ la questione, almeno attorno ai paradigmi più invalsi.

Centrismo cosa vuol dire? Moderatismo? Neo-democristianità? Equidistanza?

I “piccoli leader” dell’ipotetico centrismo all’italiana non sono moderati. Non lo è Matteo Renzi, almeno nelle forme, spesso polemiche, personalistiche, poco ascolto e molto intuito, con il piede più sull’interdizione che sulla tessitura. Non lo è Emma Bonino che è, per l’appunto, “radicale” e che viene da una lunga maratona antipartitocratica, anti-establishment, anti-poteri melliflui. Non lo è, per sua continua dichiarazione, nemmeno Carlo Calenda che addirittura si offende se viene così apostrofato.

Post-democristiani sono i post-democristiani, non chi a diverso titolo ha una proposta di tendenza lib-dem. Lo sarebbe per sua natura piuttosto Conte. Renzi lo sarebbe in chiave pre-democristiana. Calenda e Bonino difficile vederli strofinarsi le mani con sorrisetti allusivi.

Rimarrebbe l’equidistanza, cioè l’occupazione di uno spazio politico che non vuole confondersi né con una sinistra che non avendo un solido baricentro socialdemocratico europeo sbanda sempre, tiene dentro ideologia e post-ideologia e nelle difficoltà propende anche ad alleanze con i populisti. E dall’altra parte non vuole confondersi con sovranisti, nazionalisti, leghisti, separatisti e soprattutto post-fascisti.

Ma questa connotazione è più “contro” che “per”. Infatti è blanda dal punto di vista teorico, fragile dal punto di vista delle radici culturali, instabile nel non produrre tanto alleanze quanto competizione interna.

Una ossessione malata

Ecco quindi che con i parametri che trascinano nel presente eredità della prima e della seconda Repubblica, questo centrismo appare appunto una ossessione più malata che splendida.

E allora colpisce che, potendo contare tutti questi gruppi già su quattro o cinque anni di cantiere, non abbiano pensato di creare un pensatoio teorico capace di mettere a fuoco un posizionamento più approfondito in termini di aggiornata cultura politica, in termini di modello di partito, in termini di rapporto con il nuovo civismo, in termini di rappresentanza della trasformazione sociale (e della vecchia cultura delle classi), in termini di significato programmatico del modello economico pubblico-privato, in termini di cultura delle istituzioni e delle loro necessarie riforme, in termini dei significati oggi attribuibili alla massima degasperiana che un qualunque politico pensa alle elezioni ma un vero statista pensa al futuro delle generazioni.

E, se vogliamo dirla tutta, anche in termini del rapporto – su cui oggi l’unico a fare (moderata) sperimentazione è Mario Draghi – tra dimensione nazionale ed europea nella gerarchia delle riforme necessarie e nelle modalità di finanziare il rapporto tra crescita ed equità.

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