Il 4 marzo Nicola Zingaretti si dimetteva da segretario del Partito democratico con parole senza precedenti: «Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c'è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni».

Due mesi dopo, grandi progressi: il numero di poltrone di cui il Pd parla è sceso a una, la poltrona di Zingaretti. Il quale, invece che costringere il suo partito a parlare di Covid, lavoro e nuove generazioni, alimenta il dibattito sulla poltrona con mezze smentite, sorrisi allusivi, voci lasciare circolare: si candida a sindaco di Roma? Resta presidente del Lazio? Si candida sindaco senza dimettersi dalla regione?

Tutta la vergogna di marzo  - mai argomentata, non si è mai capito con chi ce l’avesse, mai un nome, mai un fatto – sembra svanita: il grande piano zingarettiano pare essere quello di candidarsi contro Virginia Raggi per Roma, vincere, poi dimettersi da presidente del Lazio e sostenere Roberta Lombardi, sempre dei Cinque stelle, ma nemica di Raggi, così da tenere insieme l’alleanza ma senza lasciare spazi alla destra (ammesso che gli elettori si prestino a questo giochino che li riduce a comparse).

Nel frattempo, un pezzo del Pd ha mandato avanti l’ex ministro Roberto Gualtieri, che si considera in corsa, senza essersi davvero candidato ma che potrebbe essere rimesso in freezer se e quando Zingaretti scioglierà la riserva.

Per dare un’idea del clima: il grande sponsor di Gualtieri, il tesoriere del Pd romano Claudio Mancini, è così abituato a muoversi nell’ombra e a mandare messaggi obliqui che dopo il ritratto che gli ha dedicato la nostra Daniela Preziosi ieri ha precisato su Facebook che l’articolo «non era sollecitato». A differenza di tanti altri, evidentemente. Poi si è dimesso, non si capisce perché, da tesoriere del partito su Roma.

Zingaretti o Gualtieri hanno un’idea per Roma? Non si sa. E com’è possibile che il Pd consideri i Cinque stelle incapaci di governare la capitale ma fondamentali per reggere una regione che ha sede a pochi chilometri dal Campidoglio?

Dopo cinque anni a dire che peggio di Virginia Raggi non si poteva fare, non sono stati capaci di produrre un solo candidato forte. O meglio, il Pd ha preso in giro anche i suoi stessi esponenti lasciando credere loro di competere in primarie che si faranno soltanto quando l’esito sarà già scritto, con il vincitore designato che si candiderà all’ultimo secondo.

Certo, il centrodestra che pure avrebbe (avuto) consistenti possibilità di vincere la capitale dopo l’ingloriosa stagione di Gianni Alemanno sta facendo perfino peggio. Non è stato capace di esprimere un’alternativa e osserva da spettatore una partita che non sta giocando, paralizzato dalle ambizioni rivali di Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

Ma da un partito che si chiama democratico, era lecito aspettarsi qualcosa di più invece di questa imbarazzante parodia della democrazia.

© Riproduzione riservata