La riunione delle Federal Reserve (Fed) di questa settimana è stata definita la più importante da quando Powell la guida. In gioco ci sono quattro interrogativi con implicazioni durature, e non solo per l’economia americana. A maggio i prezzi al consumo americani sono saliti del 4,9 per cento, l’aumento più elevato dal 1992; 3,8 anche sottraendo la componente volatile di energia e alimentari, ovvero il doppio dell’obiettivo del 2 per cento della banca centrale. A monte, i prezzi alla produzione, spinti dall’impennata delle materie prima e dalla crescita dei salari, crescono del 6,7.

Prima domanda: è un fenomeno temporaneo, dovuto alla crisi da Covid, o è la fine di un ventennio di straordinaria stabilità globale dei prezzi? Seconda: quali sono le aspettative in questo momento? E perché quelle degli economisti divergono da quelle degli investitori? Terza: qual è la risposta ottimale della Fed? Quarta: che ripercussioni avranno le scelte della Fed sulla Bce e sui mercati finanziari nel mondo, viste le strette connessioni e la centralità del dollaro.

L’inflazione transitoria?

Sono diverse le ragioni per credere che l’aumento dell’inflazione sia transitorio: la distorsione del dato mensile dovuta al confronto con l’anno scorso, quando alcuni prezzi crollarono a causa del lockdown (e infatti i maggiori incrementi si registrano nei servizi più colpiti dal Covid  come affitti, hotel e ristoranti, alimentari, o trasporti); l’impennata delle materie prime causata dai vincoli ad aumentarne rapidamente l’offerta per via dei tagli agli investimenti, anche per via della crescente sensibilità ai danni causati dallo sfruttamento delle risorse naturali e all’impatto ambientale; le strozzature nelle catene di produzione come il blocco del canale di Suez o la scarsità di microprocessori che sta rallentando molte produzioni; e infine, l’aumento dei salari, inevitabile dopo anni di compressione e a fronte di una domanda in forte crescita.

Se l’inflazione di oggi sia transitoria o ci sia il rischio di un’inversione della tendenza di lungo termine è la decisione chiave per la politica monetaria. Per capirlo bisogna osservare le aspettative, che però in questo momento sono contraddittorie. Per il mercato obbligazionario l’impennata nei prezzi è temporanea, anche confidando pienamente nell’operato della Fed: il differenziale di rendimento tra i titoli di stato a 30 e 5 anni, misura delle aspettative a lungo termine, dopo la riunione della Fed è letteralmente crollato al di sotto del livello di inizio anno, e l’inflazione attesa implicita nello spread con le obbligazioni a indicizzazione reale, si è stabilizzata intorno al 2,5 per cento, ovvero il livello massimo dell’inflazione raggiunto negli ultimi 15 anni.

Gli economisti in media la pensano diversamente, sottolineando la miopia tipica degli investitori che regolarmente porta alla formazione di bolle. Tre le loro ragioni: l’espansione monetaria è accompagnata da deficit di bilancio senza precedenti, ma la domanda aggregata non può eccedere troppo a lungo l’offerta, limitata dalla tecnologia e le risorse disponibili; la crescita salariale e del costo degli input spingerà le imprese ad aumentare i listini per difendere i margini; e la convinzione che, per la politica, un periodo di inflazione sia oggi ineludibile per poter smaltire la montagna di debito pubblico e privato accumulata a partire dal 2008. Il loro timore è che l’inflazione sia come il dentifricio: una volta uscito, impossibile rimetterlo nel tubetto.

Questione di aspettative

Le aspettative del pubblico, infine, si formano sulle esperienze personali, che guardano al passato e servono poco a prevedere il futuro. Un recente sondaggio americano ha mostrato infatti come l’inflazione attesa tra gli ultra sessantenni sia oggi il 5 per cento (memori degli anni Settanta e Ottanta) mentre è inferiore al 3 per gli under 40, che da adulti hanno sempre vissuto con la stabilità dei prezzi.

In questa incertezza la Fed ha deciso di calciare la palla in avanti, mantenendo inalterata la politica dei tassi a zero e 120 miliardi di acquisti di titoli al mese, ma cominciando a preparare il mercato all’idea che i tassi dovranno risalire più avanti, in anticipo rispetto a quanto si riteneva a inizio anno, con l’indicazione che la maggioranza dei componenti del suo Board si aspetta due aumenti del tasso ufficiale allo 0,6 per cento, ma non prima del 2023.

Inoltre, la Fed ha già cambiato ufficialmente l’obiettivo di inflazione, puntando al 2 per cento, ma come media negli anni, e accettando quindi che si superi questo livello per periodi prolungati, visto che negli ultimi 10 anni l’inflazione è sempre stata inferiore al 2. Il rischio è che le aspettative si adeguino al rialzo una volta che la crescita dei prezzi abbia superato il livello a cui la gente era abituata.

La Fed poi guarda al mercato del lavoro dove la disoccupazione al 5,8 per cento è ancora superiore al 3,5 pre Covid. C’è incertezza però su quale sia il livello di piena occupazione a cui puntare per via di possibili cambiamenti strutturali intervenuti nel mercato del lavoro di cui c’è ancora scarsa comprensione. Prova ne sia l’aumento dei salari a fronte di una domanda insoddisfatta di assunzioni da parte delle imprese, o la riduzione di quasi 8 milioni nella forza lavoro, di cui circa 1,5 dovuti a pensionamenti in eccesso a quelli previsti.

Ma soprattutto stiamo assistendo a un tacito cambiamento di paradigma della politica monetaria che passa dall’annuncio di “indicazioni prospettiche" per ancorare le aspettative, a una gestione più incentrata sulla reazione ai dati del presente. Sarebbe un ritorno al passato con il rischio che la Fed, di fronte al perdurare di un’inflazione eccessiva o a un cambio nelle aspettative, sia costretta a smentirsi con un rialzo inatteso dei tassi già nel 2022 che potrebbe innescare una crisi finanziaria dato l’elevato indebitamento. Un rischio che ritengo reale e sottostimato dai mercati.

La reazione europea 

Se la Fed tira la palla in avanti, la Bce la scaglia in tribuna. A differenza della Fed non prepara i mercati a una possibile svolta futura con l’inizio della riduzione dei tassi negativi e degli acquisti mensili di titoli, e rinvia all’autunno (significativamente dopo le elezioni tedesche) il riesame dei suoi obiettivi, inclusa la possibilità, anche solo temporanea, di sforare il tetto del 2 per cento di inflazione. E si nasconde dietro la sua previsione di un’inflazione massima dell’ 1,9 per cento, nonostante la crescita rivista al rialzo al 4,6, l’aumento dei prezzi alla produzione del 7,6 e una ripresa europea che ricalca quella americana con 6 mesi di ritardo.

Perché il vero obiettivo, non dichiarato, della Bce è ormai la stabilità finanziaria attraverso il controllo del rischio rappresentato dal debito pubblico. Secondo un’analisi di Gavekal, da gennaio 2020 a fine marzo 2021 la Bce ha comperato il 98,5 per cento di tutto il debito emesso dai governi dell’area, e con le politiche attuali potrebbe comprarne il 119 per cento a fine 2022.

Per eliminare il rischio che il mercato dei titoli di stato potrebbe rappresentare per la stabilità finanziaria, la Bce ha deciso di eliminare il mercato. Una repressione finanziaria che non è sostenibile nel caso di un’accelerazione indesiderata nella crescita dei prezzi, o di un aumento inatteso dei tassi americani da parte della Fed.

Senza contare che i tassi negativi a lungo termine sui titoli tedeschi distruggono risparmio previdenziale e minano la redditività del sistema bancario: due questioni che potrebbero diventare politicamente indigeste nella Germania post Covid.

Temo che per il debito pubblico italiano, e le nostre istituzioni finanziarie che lo detengono in gran quantità, il risveglio, al più tardi nel 2023, possa essere molto brusco. Piani di contingenza non se ne vedono: come al solito, al massimo si guarda alla fine dell’estate.

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