Non ho mai smesso di chiedermi il perché di tanta violenza. Non riesco a cancellare dalla mia mente l’immagine del corpo di mio fratello Stefano, martoriato dai colpi inflittogli e poi abbandonato dagli innumerevoli pubblici ufficiali che lo hanno visto durante il suo calvario fino alla morte, sei giorni dopo il violentissimo pestaggio.
Sospensione del diritto. Come accaduto nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Video e testimonianze raccolte dai magistrati ricostruiscono scene di una violenza spietata, perché scientificamente coordinata. 
Ho assistito, durante il lockdown, chiusa in casa con i miei figli, alle immagini di quei convogli militari che portavano via da Bergamo le bare dei morti di Covid-19.
Ho proprio pensato alle carceri. Alle celle sovraffollate dove vige la sospensione dei diritti umani. Mi sono chiesta cosa potessero pensare quelle persone, perché di persone si tratta, quando ascoltavano le raccomandazioni pressanti a tutti i cittadini affinché rispettassero le norme di sicurezza necessarie.
Distanziamento, cautela e mascherine. Mi sono chiesta se qualcuno non dovesse aver a cuore la sorte di quei detenuti. La loro paura e la profonda frustrazione che dovevano provare nell’ascoltare quei drammatici appelli che giustamente venivano ossessivamente lanciati e cui loro, per destino e pena, dovevano rimanere destinatari esclusi e estranei.
A Santa Maria Capua Vetere è accaduto qualcosa di spaventoso.
Sono arrivati in trecento, da altri istituti, in tenuta anti sommossa, coperti dai caschi, anonimi. Hanno picchiato, picchiato e ancora picchiato. Calci, schiaffi, insulti ed altre violenze. Non hanno risparmiato nemmeno un detenuto sulla sedia a rotelle.
«Avete fatto la protesta?» dicevano. 
La mente corre alla tristemente nota “macelleria messicana” di Genova della scuola Diaz, nel luglio del 2001 durante le proteste durante il G8, il summit dei potenti del mondo.
Erano in trecento, a Santa Maria Capua Vetere. Giovani e forti ma tutt’altro che nobili e valorosi.
A tutto ciò hanno assistito, in silenzio, forse impotenti, i loro colleghi di servizio in quel carcere.
Mi rifiuto di pensare che si tratti soltanto di mele marce. Chi avrà la tentazione di parlare di questo mancherà di rispetto all’intelligenza di tutti noi cittadini.
Sarebbe un’intollerabile ipocrisia cui preferirei le violente e strampalate difese di politici privi di scrupoli e umanità.
Ma non voglio nemmeno sentire parlare di violenza di Stato. Vi prego non fatelo perché questo non è lo Stato. Non lo può essere. Questo è anti Stato. Questo è crimine efferato commesso verso persone indifese.
Qualcuno si affretterà a dire che in fin dei conti sono comunque delinquenti.
Lo considero inaccettabile perché, nella migliore delle ipotesi, sono uomini e donne che hanno sbagliato, che magari hanno anche commesso gravi errori. Il carcere, però, non può e non deve essere questo. Il carcere in uno stato di diritto ha una funzione sociale: il reinserimento, non l’annientamento.
«In galera e buttiamo via le chiavi» sento dire sempre più spesso. 
Tutto questo è disumano e fa paura perché appartiene a una cultura disumana. Cinica e desolatamente priva di ogni parvenza di sensibilità. Facile parlare in questo modo quando queste tragedie le si vive come se fossero un film americano fantascientifico. Quando da esse non ci si sente in alcun modo toccati.
Tanto di cappello ai magistrati che stanno facendo il loro dovere con competenza e dedizione. 
Non sarà facile per loro, quando accadono questi fatti così terribili e inaccettabili, è più semplice negarli. Offuscarne i contorni diluendone il ricordo con anni di processi e di propaganda deviante e deviata.
L’Italia è un grande paese democratico. Un modello di diritto. Vero.
Ma assecondare e negare distorsioni e crimini ne incrina le fondamenta.

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