Il corsivo dello storico Enzo Ciconte del 25 luglio sul fatto che la ’ndrangheta non possa essere soltanto un affare dei tribunali, riservava un interessante passaggio alla chiesa: «In Calabria non c’è solo la magistratura a fare la lotta alla ’ndrangheta. C’è, ad esempio, la chiesa che da molto tempo a questa parte ha, seppure con lentezza, superato le criticità del passato e ora mostra un reale impegno. C’è ancora tanto da fare, ma la strada è tracciata. E non a caso in Calabria, a Sibari, papa Francesco ha detto le parole più forti che un papa abbia mai pronunciato contro la ’ndrangheta».

Nella conferma di un giudizio condivisibile e condiviso, quello per cui la ’ndrangheta e la lotta alle ’ndrine non possono essere affare (solo) dei tribunali, non dispiace questo riconoscimento storico all’impegno dell’istituzione ecclesiastica, che peraltro data ormai dai primi decenni del Novecento, sia a livello collettivo che di singoli pastori del sud. Certo, in un recente passato, uomini di chiesa, come del resto apparati dello stato, tendevano ad assimilare le mafie agli altri fenomeni criminali che affliggevano non soltanto la Sicilia, ma anche il sud, l’Italia e l’Europa, soprattutto ai tempi della mafia agricola e prima della sua trasformazione stragista. E tuttavia, prim’ancora del “grido” di san Giovanni Paolo II nella Valle dei templi (1993) e della scomunica ai mafiosi lanciata da papa Francesco nella Piana di Sibari (2014), già ai funerali del giudice, ora beato, Rosario Livatino, il vescovo di Agrigento, monsignor Carmelo Ferraro, diceva – era la fine del 1990 – che gli autori dell’omicidio avrebbero dovuto essere messi «fuori dalla chiesa» e che «la cultura mafiosa è peggio della tirannide di Hitler».

Non esisterebbero le mafie (oggi si dicono al plurale), infatti, se non esistessero le persone mafiose, ma ci sarebbero meno mafiosi se ci fosse meno disoccupazione, meno corruzione, meno metodi clientelari, meno illegalità anche nelle piccole cose, meno connivenze col potere del denaro e tante, tantissime amministrazioni sane. E tuttavia, quale contributo alla discussione aperta dalla riflessione di Ciconte, occorre altresì ricordare che la chiesa non “lotta contro”, ma annuncia a tutti il Vangelo, un testo che è incompatibile con qualunque specie di criminalità mafiosa, soprattutto se essa, come avviene mediante i riti di affiliazione, si presenta agli adepti come la falsa religione dello Zeus di questo mondo, che vuole sostituire l’Onnipotente divino con il falso potere del padrino mafioso.

Lo testimonia, d’altra parte, la figura di un altro beato, padre Pino Puglisi, ucciso perché prete. Non era un eroe, e neppure aveva mai desiderato esserlo. Nella sua esistenza, come nella sua opera pastorale, non v’è traccia di qualcosa che non fosse ispirata al senso di responsabilità e al dovere. Apparentemente, specie se visto con gli occhi con i quali si guarda oggi al mondo, poca roba. Eppure, era proprio in quella sua straordinaria normalità il movente della condanna a morte decretata dai fratelli Graviano. Dava fastidio, quel parroco, semplicemente perché si ostinava a essere prete autentico in un quartiere che il suo unico dio doveva avere in “Madre Natura”. E per questo fu ucciso. «U parrinu predicava tutt’a jurnata», si dicevano in carcere, ignari di essere intercettati, Leoluca Bagarella e il mafioso (poi pentito) Tullio Cannella, per spiegare la decisione di eliminare il parroco di Brancaccio. E predicando di fede e giustizia, di pace e verità, e facendo seguire alle parole i fatti attraverso la testimonianza, teneva lontani i fanciulli dalla malapianta.

Mai contro qualcuno

Ecco, anche quando comminasse la scomunica ai mafiosi, come si sta valutando nella Commissione vaticana ad hoc, lo scopo della chiesa non sarebbe quello di mettersi contro qualcuno, bensì di tentare ogni strada per fare appello alla conversione, per scardinare i cuori anche del killer più incallito, del boss più spietato o della famiglia più coesa nel male. La stessa scomunica è, infatti, una pena medicinale, ovvero l’estremo baluardo per sollecitare la conversione e il cambiamento di vita.

Anche alla luce di questi esempi, può ritenersi che i tribunali possano essere il luogo unico ed esclusivo in cui concentrare la lotta alle mafie? La risposta vien da sé: no. A meno di non voler affermare che è stato inutile il sacrificio di tanti servitori dello stato ma anche di gente come Puglisi e Livatino, assassinati non per difendere lo stato, ma per riaffermare un’idea di coerenza, pensiero e azione radicata nella fede e nel Vangelo. E se, evangelicamente, si può richiamare la necessità di dare a Cesare quel che è di Cesare, in virtù del sacrificio eroico di tanti, la chiesa riafferma la convinzione che non si faccia mai abbastanza e non solo da parte della chiesa e che la sola risposta repressiva non basti, anche perché quando il mafioso va davanti a un tribunale, il delitto non soltanto è stato già commesso, ma anche a motivo della lentezza dei tre gradi di giudizio, si è probabilmente incancrenito. Invece, occorre combattere le ingiustizie, favorire i diritti dei cittadini e creare opportunità di lavoro.

Aiutiamo allora le giovani generazioni ad avere coscienze rette e schiena dritta e, soprattutto, a non prendere la via dell’emigrazione verso altri lidi. Il cammino è iniziato. Continuarlo è l’impegno di tutti. Come ha detto papa Francesco, «Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo stato». Livatino appare perciò come un faro luminoso per chiunque intenda, con spirito evangelico, porre un freno all’incidenza sociale delle mafie, alla deprecabile connessa pratica della corruzione, a fare appello agli spiriti liberi e forti dei giovani affinché non disertino le urne. Nella lotta alle mafie esiste dunque una strada già tracciata: passa per i tribunali, ma va oltre. Porta al compito dell’educazione, al dovere della testimonianza. Passa anche dai tribunali, ma non si ferma lì e va ben oltre. Porta nei campi dell’educazione, richiama al senso del dovere ed al dovere della testimonianza. Da parte di tutti. Nessuno escluso.

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