Accadrà anche quest’anno? Forse sì: lo fa presumere il ripetersi dei titoli di giornale che ogni settembre accompagnano l’inizio dell’anno scolastico. “Caos scuola” lo si è detto di tutti i ministri dell’Istruzione, Sergio Mattarella incluso: in un ripetersi identico di descrizioni di disastri che fra agosto e settembre sono quasi sempre gli stessi: i vuoti lasciati dalle procedure di trasferimento, che però nessuno vuole irrigidire; la possibilità di scelta della scuola di chi viene immesso in ruolo che punisce ovviamente le realtà più disperate; un flusso di pensionati; gli effetti della incomprensibile parsimonia nella formazione di insegnanti per i disabili.

Un monsone di banalità flagella la fine estate con numeri imprecisi su questi aspetti. Qualche parlamentare alza il sopracciglio (“sono preoccupato”) e perfino persone serie non resistono ad spiegare una realtà complessa a partire dal caso proprio caso: “ieri mio figlio”, “mi ha detto mia moglie”, “nella scuola dove insegna mia cugina”...

Poi tutto si spegne: i supplenti arrivano, si arrotolano le bandiere dello sciopero, la “nuova pantera” torna a miagolare e inizia il letargo informativo.

Quest’anno ad agitare un po’ più a lungo le acque ci hanno pensato il Covid e il Comitato tecnico scientifico (Cts).

Il Covid perché nel testa a testa fra un nuovo lockdown e il vaccino nessuno sa quante classi saranno messi in quarantena, quanti saranno i danni diretti e indiretti e quale sarà la reazione di un ceto politico educato al vaffa e al ringhio: se i contagi manderanno in quarantena 40mila classi, si dirà che portare a scuola il 90 per cento dei ragazzi è insufficiente? Forse no, e questo ci darà una coda di polemiche sterili e inevitabili, pronta a disconoscere i successi del paese per un pugno di like.

Il Cts perché sulla scuola ha commesso il peccato mortale per un organo scientifico: quello cioè di negoziare, anziché dare una forchetta di opzioni fra le quali il parlamento e il governo potessero decidere responsabilmente e davanti al paese. Peccato perdonabile – sia chiaro – nella più grave catastrofe non bellica del XVII secolo in qua.

Ma quando ha negoziato il distanziamento (che avrebbe mandato a doppi turni tre milioni di ragazzi) con una distanza garantita dai mitici banchi monoposto ha creato una coda eccitante al diluvio delle banalità agostane: il ministero ha fatto una indagine che non ha disegnato il fabbisogno di banchi, ma la mappa della irresponsabilità. Perché i presidi che hanno chiesto 2,5 milioni di banchi per studenti che, senza Covid, si sarebbero seduti sulle stesse sedie, con rischi modesti per i loro jeans, hanno dato vita un singolare reality con protagonista assoluto il commissario Domenico Arcuri che, come tutti i reality, finirà: i banchi arriveranno, si sgonfierà la mozione di sfiducia salviniana e le luci si spegneranno.

Si parlerà di soldi, ovviamente: ma come è evidente anche nella scuola una spesa dissennata e non direzionata può fare gli stessi danni dei tagli ciechi e feroci della destra rozza e semplicista che quando guarda negli occhi il populismo vi vede commossa qualcosa di sé.

Il vuoto di idee

Perché sulla scuola quelle che mancano sono le idee: non sulla infinita lista delle “materie che dovrebbero diventare (vado a mente: musica, arte, programmazione, informatica, movimento, salute alimentare, ecologica, civismo, teatro, antibullismo, antimafia, parità di genere, tossicodipendenze, opera lirica, usura, frode, religioni codice stradale, museologia, e ovviamente educazione sessuale), non sulle facilone soluzioni luddiste che non vedono il pregio di una scuola che ha ancora un impianto unitario.

Ma idee su come impedire le diseguaglianze educative, perché i paesi più performanti sono quelli in cui l’ineguaglianza nell’educazione è inferiore.

Mancano idee di fondo: su come si produce e consegna la Parola a chi impara l’italiano come seconda lingua; su come fare delle tecnologie del futuro (che sono nell’AI, non certo nel vecchio caro digitale) un veicolo e non un contenuto; o su come – entro in zona Murgia nel senso di Michela, non della Puglia – rimediare alla diseducazione di genere che la scuola comunica col suo personale se è vero, come è vero gli esemplari “maschi di insegnante” (Paola Cortellesi) sono lo 0.7 per cento nella fascia zero-sei, alla primaria il 3.6 per cento, alle ex-medie il 22 per cento, alle secondarie superiori il 34 per cento, per toccare il 52 per cento fra i ricercatori universitari, il 63 per cento fra gli associati e il 78 per cento fra gli ordinari e il 95 per cento fra i rettori.

Idee che non si risolvono con stucchevoli comparazioni con il resto del mondo (davvero Maurizio Molinari pensa che l’Italia possa copiare dalla Danimarca che ha gli abitanti di Emilia e Marche, ha un sistema scolastico comunale e ha avuto 623 morti di Covid in tutto?), o con la rassegnata constatazione che un sistema avvitato fra competenze regionali, provinciali, comunali, ministeriali, non è ispirato alla autonomia ma all’Arcimboldo.

Si risolvono aprendo una discussione rigorosa: una convenzione nazionale come quella che fece Mattarella nel 1990, un Grand Débat Publique come quello che si fa in Francia sulle opere pubbliche, un dibattito parlamentare degno di questo nome e possibilmente a banchi non vuoti. Una discussione disinteressata: in queste settimane pur di strapazzare il ministro Lucia Azzolina (che, se fosse vecchia, brutta, rugosa e maschio avrebbe avuto più rispetto) si è strumentalizzata la scuola, senza che nessuno, salvo il segretario della Cgil Maurizio Landini, sia reso conto che ci vuol niente perché diventi la miccia della collera sociale.

Fra poco, dopo che il parlamento subirà l’umiliazione di dover discutere una mozione di sfiducia contro il ministro dell’Istruzione in cui si cita una percentuale di gradimento come la propaganda nazista citava il disamore diffuso per gli ebrei, si dovrebbe pensare all’anno scolastico 2021/2022: ai supplenti, al concorso, ai bidelli, al sostegno, alle aule, a quelli che sono in fila davanti all’ascensore sociale, ai più speciali ai bambini e alle bambine che «attendono di essere fatti eguali». Se no buon letargo e ci vediamo nel’estate dell’anno prossimo: per il monsone della banalità, per la prossima puntata di “Caos Scuola”.

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