Nell’ultimo ventennio, la crescita economica è stata trainata della Germania in Europa, e dalla Cina nel resto del mondo. Ma la crisi da Covid potrebbe aver rivelato delle crepe nel modello di crescita di queste due economie. 

Il modello tedesco è stato sostanzialmente diverso dal resto dei paesi europei: la domanda estera ha infatti contribuito per il 23 per cento della sua crescita cumulata nei 20 anni precedenti al Covid, contro il 3 della Francia, seconda economia europea, e il 7 dell’Ue. A scapito dei consumi privati, che hanno contribuito soltanto per il 39 per cento della crescita, contro il 54 e 51 di Francia e Ue; ma che ha spiazzato anche gli investimenti fissi: 19 per cento il loro contributo alla crescita del periodo, rispetto al 28 di Francia e 22 della Ue.

Un modello economico che ha puntato sulla produzione di beni destinati all’esportazione, sia per via della carenza della domanda interna, sia della discrepanza con i beni e servizi richiesti dai consumatori. Così l’avanzo delle partite correnti tedesco è cresciuto costantemente dal pareggio del 2001 fino al massimo di 8,5 per cento del Pil del 2015, per poi scendere al 6,8 stimato per quest’anno, che rimane un surplus da record tra tutti paesi monitorati dal Fondo monetario internazionale.

Effetto pandemia sulla Germania

24 September 2021, North Rhine-Westphalia, Cologne: Olaf Scholz, Finance Minister and SPD candidate for Chancellor, speaks at an election campaign event and the official conclusion of the SPD's election campaign at Heumarkt. Federal Finance Minister Scholz wants to mobilize as many voters as possible for his party once again on Friday afternoon. Photo by: Rolf Vennenbernd/picture-alliance/dpa/AP Images

La crisi da Covid sembra aver incrinato il motore dell’economia tedesca: la stima della crescita per quest’anno è del 2,8 per cento, che collocherebbe la Germania al ventesimo posto dei 23 paesi Ocse (e probabilmente verrà abbassata alla luce della recrudescenza del Covid); né si prevede un recupero nel 2022 rispetto al resto d’Europa.

Così, nel triennio 2019-2022 si stima che la Germania crescerà dello 0,6 per cento meno dell’UE e oltre il 4 meno degli Usa.

La ragione principale sta nella caduta della produzione industriale quest’anno, in controtendenza con il resto d’Europa (e l’Italia): la carenza di semiconduttori ha dimezzato la produzione di auto, la principale industria tedesca, e un’economia fortemente dipendente dal commercio internazionale è maggiormente esposta alle disfunzioni nelle filiere di produzione e nella logistica. La fase di rallentamento della produzione industriale, tuttavia, inizia nel 2018 e precede il Covid, a differenza dal resto d’Europa.

La pandemia, dunque, ha solo evidenziato, accentuandole, le crepe nel modello tedesco. 

La svolta dell’auto elettrica

La svolta elettrica dell’auto ha mostrato i ritardi tecnologici tedeschi (nel nuovo impianto di Berlino, Tesla produce auto in un terzo del tempo della Volkswagen) e la dipendenza dall’estero per componenti cruciali come batterie e semiconduttori.

La Cina, da principale mercato sta diventando il principale concorrente dell’industria tedesca. La compressione dei consumi a favore dell’industria esportatrice riflette una dinamica salariale contenuta, difficilmente sostenibile: il nuovo governo ha in programma un aumento del 25 per cento del salario minimo; mentre la bassa crescita della forza lavoro (9 per cento negli ultimi 10 anni a fronte del +19 medio dei paesi Ocse) e un tasso di disoccupazione del 3,4 per cento (metà dell’Eurozona) faciliteranno gli incrementi salariali.

A questo si aggiunge il costo della transizione ambientale, che si ritiene peserà fino 2,5 volte il costo dell’unificazione, e assorbirà l’eccesso di risparmio che fino a oggi ha finanziato il surplus commerciale.

L’eventuale transizione da una crescita trainata dall’export a una basata maggiormente sui consumi si scontra però con la struttura dell’industria tedesca, che produce beni che per caratteristiche non soddisfano la domanda privata interna. È ragionevole ritenere che la Germania in futuro difficilmente sarà vincente come in passato.

Il parallelo con la Cina

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Lo stesso, ma per ragioni diverse, vale per la Cina. Dal 2002 al 2012 è cresciuta a un tasso medio annuo del 10,5 per cento, trainata da export, investimenti pubblici e offerta abbondante di lavoro. Da allora il tasso di crescita è sceso gradualmente al 6 per cento del 2019, con la domanda interna che ha sostituito l’export, fino ad azzerare il surplus delle partite correnti nel 2018. Il Covid ha fatto crollare la crescita del Pil al 2,3 per cento. Si prevede un rimbalzo all’8 per cento quest’anno, per poi assestarsi al 5 nel 2022. Ma tre incognite pesano sulla crescita in futuro. 

La prima è la crisi immobiliare, un settore che con l’indotto pesa per un quarto dell’economia cinese.

La crisi non riguarda solo il debito finanziario delle società immobiliari, ma anche quelli commerciali dei fornitori, con un impatto recessivo su tutta la filiera; il crollo dei prezzi delle case ha un effetto pervasivo sulla ricchezza privata; e gli enti locali rallentano gli investimenti che venivano finanziati con la vendita dei terreni da edificare.

Per sgonfiare la bolla immobiliare il governo mantiene una politica restrittiva del credito, che pertanto non può essere utilizzato per sostenere la domanda, e causa un forte apprezzamento dello yuan.

In questo momento la domanda esterna sta compensando la debolezza di quella interna, ma è il risultato della temporanea esuberanza del consumatore americano. Come insegna il Giappone, l’impatto recessivo dello scoppio delle bolle immobiliari tende a essere profondo e prolungato, 

La seconda incognita riguarda la capacità del mercato dei capitali cinese di sostenere la crescita delle proprie imprese. Il boom delle imprese tecnologiche cinesi è stato possibile grazie ai capitali raccolti con la quotazione a Wall Street e con l’acquisizione di know how tramite investimenti diretti all’estero.

Ma dopo il caso Huawei, la Cina ha deciso di segmentare il proprio mercato dei capitali proibendo le quotazioni all’estero; e le limitazioni dei diritti civili a Hong Kong ne ha ridotto la capacità di attirare capitali. Così le imprese cinesi dovranno ricorrere prevalentemente al mercato finanziario interno, che però è ancora inadeguato.

La tenuta sociale

La terza incognita è lo stato sociale. Anni di controlli delle nascite hanno portato a un rapido invecchiamento della popolazione (la Cina ha oggi un tasso di natalità inferiore all’Europa) e una crescita della forza lavoro inferiore anche alla Germania. Un’evoluzione che porta inevitabilmente a una maggiore domanda di welfare e benessere sociale.

Le disuguaglianze non sono aumentate negli ultimi 10 anni (indice Gini costante), ma la loro percezione sì, specie dopo che il Covid ha colpito soprattutto i meno abbienti e le piccole imprese. Di qui il mantra della “prosperità comune” del premier Hi Jinping e la censura dei ricchi e delle loro ostentazioni.

Al di là delle dichiarazioni, Gavekal stima che la spesa sociale (sanità, educazione e protezione sociale) sotto Hi sia aumentata di appena 1,3 per cento del Pil, all’8,8 per cento: un livello molto inferiore a quello occidentale.

Se lo slogan della “prosperità comune” fosse il segnale di un’espansione del welfare, il costo delle risorse per finanziarlo sarebbe un ulteriore macigno sulla crescita potenziale della Cina.

Quale sarà l’economia mondiale nel post Covid è difficile dire. Ma è ragionevole dubitare che Germania e Cina possano continuare a essere le locomotive del mondo.


 

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