Lo spettacolo dei delegati del XX Congresso del Partito comunista cinese in piedi ad applaudire ritmicamente per più minuti un compiaciuto Xi Jinping è sconcertante. Non solo perché richiama alla mente tempi bui del nostro passato e, probabilmente, del nostro futuro, ma anche e soprattutto perché offre un desolante squarcio di luce sui guai che sta passando la Cina (e, di conseguenza, il mondo intero).

Le cronache di questi giorni si sono volentieri soffermate sul presunto rafforzamento di Xi Jinping, presentato come il leader cinese più forte dai tempi di Mao Zedong.

A dire il vero, il paragone con Mao non dovrebbe inorgoglirlo troppo, perché, dopo il 1949, il Grande Timoniere ebbe raramente un sicuro controllo del timone, andando vicino a esserne allontanato a due riprese almeno: dopo la catastrofe del “grande balzo in avanti” e durante la catastrofe della “rivoluzione culturale”, per finire poi senile ostaggio di una fazione di irriducibili pauperisti capitanata da sua moglie.

Un congresso meccanicamente plaudente non è una garanzia di forza; anzi, è quasi sempre vero il contrario. Come ha scritto Bertold Brecht, «sventurata la terra che ha bisogno di eroi»; oggi, quella sventura tocca alla Cina, che sta perdendo la “scommessa di Deng”. L’ascesa di Xi e i suoi continui giri di vite autoritari per tenere insieme con la forza una nazione che rischia di sfaldarsi, non possono che accelerarne lo sfaldamento.

La “scommessa di di Deng”

Anche se la mitologia cinese lo nasconde, e la pigrizia dei cronisti lo ha dimenticato, la linea di Deng Xiaoping impiegò più di una decina d’anni ad affermarsi in un Partito recalcitrante, timoroso di fronte ai rischi insiti nell’apertura al mondo.

Nella storia e nella tradizione politica cinese, l’apertura è sinonimo di disgregazione del paese: gli esempi più recenti – l’arrivo degli inglesi e del loro oppio nell’Ottocento, i “trattati ineguali” alla fine di quel secolo, i “signori della guerra” con i loro mandanti e protettori in Russia, Giappone e Gran Bretagna nella prima metà del Novecento – erano sufficienti a far temere una possibile nuova disgregazione di un paese unificato più sulla carta che nella realtà (come la “rivoluzione culturale” – una vera e propria guerra civile – aveva dimostrato).

Deng riuscì ad imporsi molto faticosamente, avanzando la tesi che il benessere avrebbe generato gratitudine e fedeltà verso i benefattori e che, quindi, l’interesse a preservare l’unità avrebbe prevalso sulle tentazioni separatiste.

La “scommessa di Deng”, insomma, puntava sulla comprovata identità tra arricchimento e consenso. Che implica, però, che per mantenere il consenso occorre garantire l’arricchimento. All’inizio fu così: la crescita del reddito pro capite fu continua tra il 1979 e il 1984; poi, però, cominciò a rallentare, passando dal 14 per cento di quell’anno al 7,3 per cento nel 1986 e al 2,6 per cento nel 1989.

Quel crollo delle aspettative spiega Tienanmen più e meglio di tante elucubrazioni ideologiche. Un rallentamento simile è in corso oggi, ma su un periodo molto più lungo: quasi ininterrottamente (eccezione nel 2010) dal 2007, con un ritmo di crescita passato dal 13,6 per cento di quell’anno al 5,6 nel 2019. Insomma, anno dopo anno, la popolazione cinese vede evaporare davanti ai propri occhi il miraggio di un ulteriore arricchimento; e i rischi legati alla disoccupazione, alla crisi demografica, alla bolla immobiliare, ai lockdown e, va da sé, al deteriorarsi delle relazioni internazionali non fanno che frustrare ulteriormente le aspettative di benessere.

La svolta autoritaria

La riduzione delle aspettative “spiega” la svolta autoritaria di Xi Jinping: i suoi giri di vite sono una sorta di anti Tienanmen preventivo. Ma i giri di vite e l’autoritarismo non fanno bene allo sviluppo di nessun paese: se la Cina volesse dare un impulso alla crescita del benessere dovrebbe, fra le altre cose, garantire un quadro legale e normativo affidabile, incoraggiare lo spirito di iniziativa, la libertà di ricerca e la libertà sindacale, e rafforzare la legittimità delle sue istituzioni. Ma incamminarsi su questa strada, diceva lo stesso Deng nel 1987, «significherebbe gettare il paese nel caos: non resterebbe niente per tenere insieme un miliardo di persone».

La sceneggiata del XX Congresso sarebbe dunque l’alternativa al caos e alla frammentazione del paese. Il rischio, però, è che l’inasprimento autoritario finisca con l’accelerare il caos e la frammentazione. Per questo, l’apparente rafforzamento di Xi Jinping può essere lo specchio di un patente indebolimento della Cina.

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