È finito da poco il novembre globalmente più caldo di sempre, siamo nell'autunno più caldo della storia europea e gli ultimi cinque anni sono stati i più caldi da quando le temperature vengono misurate, classifica nella quale entrerà - sul podio - anche il 2020. È con questo clima non eccellente che arriviamo al quinto anniversario degli accordi di Parigi, firmati il 12 dicembre del 2015.

Per non presentarsi a mani vuote al Climate Ambition Summit organizzato oggi dall'Onu, un faticosissimo Consiglio europeo notturno ha raggiunto l'intesa sui nuovi obiettivi di medio termine dell'Unione: taglio delle emissioni del 55 per cento entro il 2030, per arrivare a zero entro il 2050.

L'Europa non poteva mancare a questo autunno di rilanci: il Regno Unito ha fissato il 68 per cento di riduzione, sempre entro il 2030.

A settembre Xi Jinping ha annunciato che la Cina arriverà a zero emissioni nel 2060, sono attese a breve altre notizie sul fronte cinese e si attendono le mosse di Biden negli Stati Uniti. Sono 110 i paesi che hanno promesso la neutralità climatica entro il 2050.
 

Il primato della politica

Insomma, è stato un periodo turbolento, dall’elezione di Donald Trump in poi, ma la buona notizia è questa: «Cinque anni dopo possiamo dire che l'accordo del 2015 ha retto», come commenta Stefano Caserini, docente di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. La scienza è stata accettata, il negazionismo è finito ai margini, ancor più dopo le elezioni americane.

«Parigi ha mandato un messaggio forte e chiaro e in qualche modo quel messaggio è stato recepito, soprattutto nel mondo della finanza, dove hanno capito che carbone, petrolio e gas rischiano di essere la prossima bolla, non si potranno bruciare nemmeno quelli che hanno già messo nei bilanci. Negli Stati Uniti, nonostante Trump, le società del carbone stanno già portando in massa i libri in tribunale».

Gli accordi di Parigi hanno avuto effetti reali e resistenti alle molte spinte contrarie, che pure non sono mancate. Un fallimento come a Copenaghen 2009, e quindi continuare come se niente fosse, ci avrebbe portato verso un aumento della temperatura tra 3 e 5 gradi, oggi la prospettiva è di fermarci a 2,1 secondo le analisi indipendenti di Climate Action Tracker.

 «Il vero grande risultato di Parigi è che l'unico paese che ha cercato di uscirne, gli Stati Uniti, è tornato indietro», commenta Valentino Piana, che ai negoziati del 2015 era presente e che ha tradotto il testo in italiano.  «Cinque anni fa si scelse di dare priorità alla politica. L'accordo ha un'architettura dinamica, con i suoi cicli quinquennali di revisione al rialzo degli obiettivi. Il tema di Parigi non erano i dettagli, ma la capacità del mondo di prendersi la responsabilità di quello che succede».

People take part in an internationally organized march called the Global Climate March, in Vancouver, British Columbia, Sunday, Nov. 29, 2015. The protest was targeted at sending a message demanding climate action to world leaders meeting at the U.N. climate summit to take place in Paris, France, or COP21. (Jimmy Jeong/The Canadian Press via AP) MANDATORY CREDIT

Lo squilibrio tra l’orizzonte e gli strumenti

Dei «dettagli» bisogna però occuparsi. Il punto politico oggi sono proprio gli strumenti e gli obiettivi di breve e medio termine. Il punto ambientale invece è il fattore tempo, quello che abbiamo per invertire la rotta. Insomma, il come e il quando.

L'Europa taglierà le emissioni del 55 per cento in dieci anni, il Regno Unito del 68 per cento: siamo stati troppo prudenti? È quello che contestano gli ambientalisti. «Bisogna distinguere gli accordi di Parigi in sé e le politiche degli stati per attuarli, sono piani diversi e confonderli è rischioso», dice Mariagrazia Midulla, responsabile clima del Wwf. «Prendere un impegno comune di limitare il riscaldamento globale fu un successo, ma le politiche sono ancora largamente insufficienti, anche tenendo fuori dal bilancio la defezione americana».

La storia degli accordi di Parigi è tutta raccontabile sullo squilibrio tra un orizzonte finalmente condiviso da scienza e politica - fermare l'aumento delle temperature ben sotto i 2 gradi rispetto all'era pre-industriale - e gli strumenti concreti per arrivarci.

«È come se con una mano avessimo indicato un obiettivo, con l'altra avessimo disegnato una strada che non ci arriverà mai nei tempi richiesti», sintetizza efficacemente Luca Iacoboni, responsabile energie e clima di Greenpeace. Il risultato raggiunto dal Consiglio europeo è utile per capire la forbice tra orizzonti e applicazioni: la comunità scientifica chiedeva all'Europa il 65 per cento di riduzione entro il 2030, il Parlamento europeo aveva votato il 60 per cento, il Consiglio europeo è riuscito a portare a casa il 55 per cento netto, e «netto» è una parola importante, perché nel conteggio include anche i «pozzi di carbonio», cioè l'assorbimento da parte di foreste e terreni agricoli.

Quindi il taglio reale di emissioni entro il 2030 sarà inferiore al 55 per cento annunciato, più realisticamente intorno al 50. Altre contestazioni (Wwf): non è chiaro come si contabilizza l'assorbimento delle foreste e rinunciare a tagliare emissioni reali sarà un problema quando saremo in vista dell'ultimo miglio e ci accorgeremo di non aver tagliato quanto credevamo.

Chi decide in Italia

Se restringiamo il cono di visione all'Italia, le incertezze lungo la strada sono tante. La lentezza nello sviluppo delle rinnovabili e delle filiere dell'eolico e del solare. Il ruolo dell'idrogeno nella decarbonizzazione nei settori dove questa è più difficile (come le acciaierie).

Poi c'è la preoccupazione per il ponte che abbiamo scelto per passare dal nostro presente inquinante al nostro futuro a zero emissioni: il gas naturale. «Usare il gas al posto del carbone è una strategia di minimizzazione del danno, che ha senso per un orizzonte limitato. Dobbiamo già pensare a una exit strategy, che diventa impossibile se iniziamo a costruire oggi infrastrutture che ci impegnano a lungo termine», dice Caserini.

È la questione aperta che hanno anche gli americani sul fracking, amplificata per noi dall'arrivo dei fondi Next Generation EU. È un dilemma industriale e filosofico: gli impianti di cattura e stoccaggio della CO2 che Eni e Saipem stanno sviluppando sono una tecnologia verde, perché riducono le emissioni, o il contrario, visto che rafforzano una fonte energetica, il gas, che dovremo abbandonare?

Il problema, secondo Piana, è a monte. «In Italia non c'è ancora stato un vero dibattito politico nazionale sulla partita industriale ed energetica riguardo al clima, perché ci siamo sempre nascosti dietro l'Europa. Il Recovery Plan può essere finalmente l'occasione per averne uno che aiuti a stabilire qual è l'interesse nazionale sulla transizione energetica».

Finora l'Italia non ne ha approfittato per fare nuova industria e creare nuova occupazione, il 2021 sarà l'anno in cui forse succederà e questo ci porta ovviamente nel dibattito sulla governance per i fondi europei in arrivo. Perché chi deciderà come saranno investiti scriverà il futuro ambientale dei prossimi trent'anni. 

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