La buona notizia è che aumentano le probabilità che la Banca centrale europea tenga per molto tempo i tassi di interesse bassi, come serve all’Italia per non essere schiacciata dal suo debito pubblico.

La cattiva è che la politica monetaria dell’eurozona si avvia verso un futuro poco prevedibile. E sui mercati finanziari l’incertezza non è mai una bella cosa. Specie per i paesi ad alto debito, come l’Italia, che nelle fasi di incertezza sono i più colpiti quando gli investitori declinano i loro dubbi nella richiesta di tassi di interesse più alti.

Dopo un lungo percorso, la Bce ha comunicato la revisione di alcuni aspetti cruciali delle sue strategie. Il più rilevante è che cambia l’obiettivo da raggiungere. La stabilità dei prezzi non è più identificata con un’inflazione vicina ma inferiore al 2 per cento annuo, come è stato negli ultimi anni, ma con la tendenza al 2 per cento nel medio periodo.

Nel concreto questo significa escludere aumenti automatici del costo del denaro o altre politiche restrittive quando l’indicatore scelto dalla Bce per misurare l’inflazione arriva al 2 per cento, come successo a maggio.

Dal 2013 l’inflazione è sempre stata parecchio inferiore al 2 per cento, soltanto nella fase di ripresa post-Covid i prezzi hanno cominciato a correre.

Prezzi stagnanti per l’economia sono un problema, perché indicano che c’è poca fiducia nel futuro, si fanno pochi investimenti mentre i debitori faticano, perché l’inflazione riduce il valore reale delle somme da restituire.

Prezzi che aumentano troppo rapidamente possono far collassare un’economia, bloccano il flusso di scambi tra capitale e lavoro, possono distruggere il potere d’acquisto di chi ha un reddito fisso, come i dipendenti.

La Federal Reserve americana ha fatto una scelta analoga, anche se il mandato della Fed, a differenza di quello della Bce, include anche la massima occupazione possibile.  La Fed però ha fatto una scelta più radicale della Bce e ora considera l’inflazione su un arco di tempo, invece che in un momento specifico. Questo le garantisce una maggiore flessibilità di intervento.

La Bce cambierà anche il modo in cui calcola l’inflazione, la novità più rilevante è considerare l’andamento dei prezzi per le abitazioni (non gli immobili da investimento, ma le case in cui si abita, che sono forse il consumo più rilevante per molti).

Tutto e niente

Per la Bce cambia tutto e niente. Molti economisti sono rimasti perplessi: che senso ha per la banca centrale modificare un obiettivo che ha dimostrato di essere incapace di conseguire?

Se oggi l’inflazione si avvicina al 2 per cento è per le circostanze eccezionali connesse alla pandemia – brusca frenata, enorme spesa pubblica dei governi e rapida ripresa – non certo perché le politiche della Bce siano riuscite a spingere i prezzi al livello desiderato. In questo momento, e forse nei prossimi anni, l’inflazione preoccuperà più della deflazione: nell’immediato la nuova strategia della Bce assicura che non ci saranno politiche restrittive (riduzione dell’acquisto di titoli di Stato, aumento dei tassi) per contenere l’inflazione, quindi la ripresa non è a rischio; nel medio periodo, però, diventa molto più difficile prevedere le risposte della Bce al mutare delle condizioni sul mercato.

Quale sarà lo scostamento dall’obiettivo che innescherà una reazione della Bce? Un’inflazione al 2,2 per cento? Al 3? O magari al 5 per cento? Nella storia della Bce, l’inflazione non è mai andata sopra il 4,1 e mai sotto il -0,6.

Se le mosse della Bce diventano più difficili da prevedere, gli investitori potrebbero chiedere un premio al rischio sui titoli il cui valore è influenzato dalle scelte della banca centrale. Diverse previsioni sul livello che fa scattare la reazione di Francoforte porteranno a diverse decisioni di acquisto o vendita di titoli.

Il rischio, insomma, è che la Bce stia scambiando un po’ di stabilità di breve periodo con una maggiore volatilità nel medio. Anche perché nella sua attesa revisione strategia la Bce incorpora anche obiettivi di contrasto alla crisi climatica, come promesso dalla presidente Christine Lagarde al suo insediamento nel 2019.

Quanto conta il clima

Ci sono ottime ragioni perché una banca centrale di preoccupi del clima: un rischio di portata sistemica deve essere considerato da un’istituzione che si occupa di stabilità dei prezzi, ma anche di stabilità del sistema finanziario e vigilanza bancaria.

I problemi potenziali nascono dal fatto che la Bce si prefigge obiettivi che potrebbero richiedere scelte opposte: tenere bassi i tassi di interesse, per esempio, aiuta gli Stati a finanziarsi ma riduce la redditività delle banche aumentando i rischi di crisi bancarie, considerare il vero tasso di rischiosità di titoli dati in garanzia che possono risentire della crisi climatica di sicuro misura il valore in modo più accurato, ma altera i prezzi relativi e introduce altre variabili difficili da prevedere da parte dei mercati.

E poi su quali titoli, da parte della Bce, ha senso concentrare gli acquisti per favorire la transizione?  Su quelli emessi da aziende che nascono già verdi e sostenibili? O su quelle inquinanti ed energivore che però stanno andando nella direzione giusta e hanno bisogno di risorse per completare il percorso?

Ci vorrà tempo per rispondere a tutti questi dubbi, un tempo durante il quale le buone intenzioni di Francoforte possono anche dare risultati opposti a quelli desiderati.

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