L’estate 2025, scriveranno gli storici, ha segnato il ritorno dell’economia di guerra, il riarmo dei paesi Nato, la fine dell’identità dell’Unione europea di Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, di Willy Brandt e di Aldo Moro, di Helmut Kohl e François Mitterrand, di Altiero Spinelli e di Simone Veil, i democristiani, i socialisti e i liberali dell'Europa occidentale e mediterranea, che la fondarono come progetto politico, sostituita dal sovranismo all’ungherese ma anche dal modello di nuova democrazia protetta che avanza dal mar Baltico (spese militari, sicurezza dei confini).

Mentre nel cuore dell'Occidente, a Washington, la festa dell’indipendenza del 4 luglio è stata segnata dall’approvazione del Big Beatiful Bill e dalla volontà trumpiana di trasformare il Congresso degli Stati Uniti nella Duma di Vladimir Putin, con tanto di minacce per i repubblicani dissidenti e con i democratici costretti all’ostruzionismo (l’eroe è Hakeem Jeffries con il suo intervento di otto ore e 44 minuti) e all’uscita finale dall’aula.

Montesquieu e Tocqueville muoiono nella nazione forgiata dalla divisione dei poteri. Ma non stiamo messi meglio noi, nel paese di Cesare Beccaria, dove perfino il massimario della Cassazione viene considerato ideologico da ministri in carica quando invoca il rispetto della Costituzione.

Al nostro parlamento hanno già pensato decenni di incuria, di decreti a colpi di fiducia, di riforme che puntavano a mutilare le funzioni e l’autorevolezza delle camere. La destra non ha fatto altro che raccogliere il seminato, potrebbe avere almeno la buona creanza di ringraziare.

Vuoto democratico

Il vuoto democratico non è cominciato con la destra di Giorgia Meloni al governo. È il risultato di più di quarant'anni di desertificazione democratica, di distruzione della politica, di decadenza intellettuale. Visibile quando si ritira fuori, oh che novità!, la tirata sull’egemonia culturale della sinistra.

Importanti cattedratici ne parlano come faceva lo studente di liceo impreparato all’esame di maturità di Ecce Bombo sul «malgoverno dei democristiani» negli anni Settanta, tuonano contro il “fantomatico” carattere democratico della scuola che bloccherebbe la capacità di produrre il maggior numero di studenti preparati (a quando l’elogio delle docce fredde per forgiare il carattere?).

Ma oggi l’egemonia è in mano al misto di conservatorismo e reazione che caratterizza la maggior parte degli osservatori, compresi quelli schierati (geograficamente) a sinistra. Gli stessi che pigramente sospirano sulla bravura di «Giorgia» e sull’assenza di un’alternativa.

Il neo-conformista

Ogni mattina il neo-conformista si alza e intona la sua litania. Il neo-conformista considera questioni secondarie la stanchezza della democrazia, l’attacco alla divisione dei poteri, la fine della tensione politica della comunità internazionale verso la pace, sostituita dal linguaggio e dalle azioni di guerra.

Il neo-conformista vive come retaggio del passato tutto ciò che richiama partecipazione e sinistra, mentre chiude un occhio, anzi due, sulla persistenza (non voglio dire resistenza) nel simbolo di Fratelli d’Italia della Fiamma tricolore del Movimento sociale italiano, fondato nel 1946.

Il neo-conformista ama dire che Meloni sia l’unica a parlare di Nazione e di Patria, laddove gli altri sarebbero disfattisti, e pazienza se poi la premier esclude dai padri della Patria i confinati di Ventotene, se si atteggia a statista internazionale fuori dai confini e si comporta in casa da capopartito, se parla a meno della metà dei votanti. Il neo-conformista considera tutte queste obiezioni puro folclore. E il vuoto democratico soltanto un dettaglio.

La questione centrale

Il vuoto democratico è invece la questione centrale, è anche lo spazio sociale, politico, perfino elettorale da occupare, per chi vuole costruire l’alternativa. Dare una rappresentanza ai ceti medi che si sentono abbandonati, non riconosciuti nelle loro esigenze e preoccupazioni, risucchiati da un buco nero di indifferenza. All’Italia che rischia di scomparire, come preconizza il Piano strategico nazionale delle aree interne del governo.

È una sfida che va oltre i centri espressione di circoli ancora più ristretti, le tende riformiste di cui ha parlato Matteo Renzi, la caccia al federatore, che poi di Romano Prodi ce n’è stato uno in trent’anni.

L’immagine dei democratici americani sulle scale del Congresso Usa ha qualcosa di familiare, colloca la difficoltà e la ricerca in un orizzonte decisamente più ampio di una direzione del Pd.

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