L’Indagine conoscitiva della Commissione Finanze del parlamento vuole essere il documento di indirizzo politico per la riforma del sistema tributario che il governo si è impegnato a varare. Un’iniziativa lodevole con diverse proposte condivisibili e di buon senso. Ma l’Indagine manca di una chiara visione e sono troppe le lacune e incongruenze (come fosse già il frutto di un compromesso al ribasso) per poter aspirare a diventare la riforma organica e strutturale che l’Italia attende dal 1974. 

Chi trasferisce a chi

La prima e più corposa proposta è la riduzione della progressività delle imposte sul reddito delle persone fisiche (Irpef) fra i 28 e i 55 mila euro, quindi della pressione fiscale che grava sul ceto medio. Condivisibile, ma il documento non affronta il problema a monte, cioè la forte progressività dell’intera struttura impositiva del reddito delle persone: 8 milioni di contribuenti con redditi superiori ai 28 mila euro trasferiscono ogni anno 33 miliardi ai 32 milioni con redditi inferiori. Chi ha un reddito di 50 mila euro, ne trasferisce circa 4mila, ma se il reddito raddoppia, il trasferimento quasi quadruplica (fonte Banca d’Italia).

Appena l’8 per cento dei contribuenti fornisce la metà del gettito complessivo. Se la ragione per attenuare (non abolire) la progressività è il disincentivo a lavorare, come correttamente argomentato dalla Commissione, il principio vale anche per chi guadagna più di 55 mila euro.

Il vero problema è che la redistribuzione del reddito in Italia si poggia eccessivamente sull’Irpef, specialmente sui pochi che hanno un reddito elevato e pagano le tasse: non un grande incentivo investire in professionalità e capitale umano, vero motore della produttività di un paese.

Sarebbe molto più efficiente, ovvero meno distorsivo per la crescita, redistribuire il reddito tramite il welfare. Invece, oltre a fare affidamento in modo eccessivo sull’Irpef, la redistribuzione avviene anche attraverso una miriade di deduzioni, detrazioni e bonus di cui non si è mai verificata l’efficacia, e che creano grandi differenze nell’aliquota marginale effettiva, specie ai redditi più bassi.

La Commissione suggerisce soltanto qualche correttivo blando e inutile (come la verifica a posteriori del beneficio pro capite medio). Almeno a livello di indagine conoscitiva sarebbe stato auspicabile promuovere la totale eliminazione delle cosiddette tax expenditure e l’armonizzazione del welfare con il sistema tributario: sarebbe stato un vero indirizzo che avrebbe rafforzato la posizione del governo di fronte agli inevitabili compromessi che dovrà fare.

Vi siete scordati le famiglie

L’Indagine prende posizione a favore della tassazione del reddito a livello individuale, senza tener conto del nucleo familiare: ovvero si preferisce tassare maggiormente la famiglia monoreddito rispetto a quella con più percettori di reddito per creare un incentivo alla partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Ma forse le donne non entrano nel mercato del lavoro perché devono surrogare a un welfare che dimentica l’assistenza ad anziani, disabili, giovani con disagio, perché mancano gli asili nido e la scuola non è in grado di offrire il tempo pieno. 

Condivisibile la proposta di uniformare la tassazione dei redditi da capitale a prescindere del regime giuridico (amministrato, dichiarato e gestito), o della loro classificazione a fini tributari (finanziari e “altri redditi” da capitale), permettendo di compensare perdite e guadagni tra le varie forme.

Il risparmio degli italiani è unico; unica dovrebbe esserne la tassazione. Come auspicabile che il risparmio previdenziale non venga più tassato durante la sua accumulazione, ma solo al momento dell’erogazione (all’aliquota marginale Irpef).

La scelta di un’aliquota unica allineata al primo scaglione Irpef (oggi 23 per cento) ha indubbi vantaggi pratici dal punto di vista dell’implementazione; ed eliminerebbe il sussidio implicito ai titoli di stato italiani (tassati al 12,5 per cento per i residenti), non più giustificabile.

Per la tassazione del reddito di impresa (Ires) si propone un maggior allineamento del bilancio civilistico delle imprese a quello fiscale, che oggi differiscono in modo sostanziale a causa di una miriade di incentivi, sussidi, agevolazioni a beneficio di interessi particolari; e abolizione dell’Irap.

Sono proposte fondamentali per l’efficienza: oggi due imprese simili possono pagare aliquote effettive molto differenti, e la conseguente incertezza sulla tassazione degli utili futuri pesa nelle decisioni di investimento. Ma in contrasto con la prima proposta si sostengono gli incentivi alla transizione ambientale (non c’erano i fondi del Prrrn per questo?), all’aggregazione di piccole realtà imprenditoriali (se è vantaggioso per l’imprenditore, perché sussidiarlo?), e al reinvestimento degli utili per aumentare la produttività (anche se teoria e pratica ne hanno dimostrato l’infondatezza).

Quanto all’abolizione dell’Irap si dice vagamente che sarà ricompresa dall’Ires: significa che si vuole aumentare questa aliquota? Perché invece non proporre apertamente l’abolizione dell’Irap in cambio della cancellazione di tutti gli incentivi? 

Fra le proposte, la rimodulazione delle addizionali regionali e comunali sull’Irpef. Ma se il principale obiettivo della riforma è la riduzione della tassazione del lavoro, si dovrebbe avere il coraggio e la coerenza di abolirle, spostando il finanziamento degli enti locali su consumi e immobili, in quanto l’ubicazione della base imponibile in questo caso è inequivocabile. 

Chi tocca il mattone muore

Tante le colpevoli omissioni. Si parla genericamente di riordino delle aliquote Iva senza dire chiaramente che bisognerebbe incrementare il gettito ridefinendo le aliquote sui vari beni, ma anche semplificare il sistema per ridurre l’evasione.

Quanto alla tassazione degli immobili una riforma non può dirsi organica se ignora il problema e non corregge la pluralità di imposte (cedolare sugli affitti, reddito figurato, Imu, registro, Tari) come fa l’Indagine. Ma si sa: chi tocca il mattone, muore.

Grave omissione è la mancata presa di posizione sulla flat tax per gli autonomi e sulla “patrimoniale”: le imposte “politicamente identitarie” di destra e sinistra.

Una proposta di riforma strutturale e organica non si può esimere, per ragioni di opportunità, da un’analisi sulla coerenza di queste due proposte con l’impianto della riforma.

Un’occasione sprecata per fare chiarezza: la flat tax è in contrasto con la struttura proposta per l’Irpef; e la ricchezza è già tassata nel momento in cui si accumula (tassando il rendimento), per cui una patrimoniale sul livello della ricchezza equivarrebbe ad aumentare la tassazione del rendimento (se questo è positivo), e a tassare le perdite (se il rendimento è negativo).

Nessun cenno alla riforma del contenzioso, nonostante i tempi lunghi e le troppe incertezze sull’esito dei procedimenti tributari. Ma la certezza del diritto è la prima arma nella lotta all’evasione.

Né all’organizzazione ed efficienza dell’autorità tributaria nonostante questa abbia un numero di addetti per abitante tra i più alti al mondo e l’asserita capacità di stimare con precisione l’evasione di ogni imposta (il tax gap). La lotta all’evasione passa anche da qui. 

l’Indagine è stata criticata per il suo costo per la finanza pubblica. E’ sbagliato.

La riforma tributaria è un importante investimento per il paese e in quanto tale sarà il governo a deciderne la convenienza in termini di contributo alla crescita in rapporto ai tanti altri progetti finanziati col debito (quanto costano quelli per le ferrovie?).

Temo che la tanto agognata “riforma strutturale e organica” possa ancora attendere.


 

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