Una delle contraddizioni maggiori nel documento dell’Autorità Antitrust sui contratti pubblici riguarda il tema delle stazioni appaltanti. La loro riqualificazione, anche attraverso una drastica riduzione del loro numero (oggi sono ancora oltre 37.000!), è (era?) uno degli assi portanti del Codice dei contratti del 2016.

Solo stazioni appaltanti qualificate, dotate di personale e di risorse tecnologiche adeguate sono in grado di seguire, anche per conto di altre amministrazioni, tutto il processo del contratto (di lavori, di servizi, di fornitura), dalla programmazione/progettazione fino al collaudo, curando più interessi pubblici: l’interesse concreto legato al contratto, la tutela della concorrenza nel mercato, l’efficienza della spesa, la legalità e l’imparzialità, la tracciabilità e la trasparenza.

L’Antitrust è consapevole dell’importanza di questo passaggio, che assicura anche una “maggiore discrezionalità”, a cominciare dalla valutazione delle offerte presentate dalle imprese. Una discrezionalità responsabile e trasparente è largamente auspicabile, in questo come in altri momenti dell’azione contrattuale.

Eppure anche l’Autorità per la concorrenza suggerisce una soluzione in due tempi: subito la sospensione del Codice dei contratti e poi, nel “medio periodo”, la riqualificazione delle stazioni appaltanti.

Si propone così esattamente la politica seguita da tutti i governi, dal 2016 in poi: mancata attuazione del Codice (il Dpcm sui requisiti organizzativi per la qualificazione non è stato mai emanato), mancato investimento nelle amministrazioni destinate al ruolo di stazione appaltante.

Salvo, poi, di fronte alle difficoltà operative riscontrate, intraprendere la strada funesta delle sospensioni, delle deroghe e delle soluzioni emergenziali (correttivi, “sblocca-cantieri”, “semplificazioni”).

Nel “medio periodo”, si direbbe parafrasando J.M. Keynes, le stazioni appaltanti sono tutte morte. Dopo avere fatto passare ben 5 anni senza fare nulla, ogni ulteriore ritardo nella qualificazione è un delitto in primo luogo contro quella concorrenza che l’Antitrust ha il compito di tutelare.

Le cose da fare sono note e relativamente semplici. Puntare, subito, su un numero ridotto di stazioni appaltanti molto qualificate, poste al servizio di tutte le altre: le attuali 35 centrali di committenza (nazionali e regionali), più le 100 amministrazioni di area vasta (86 Province e 14 Città metropolitane). Ripristinare l’obbligo dei Comuni non capoluogo di avvalersi di queste per i contratti di maggiore importo e complessità.

Reclutare direttamente a livello nazionale, con procedure semplificate, personale di elevata qualificazione tecnica (secondo le precise indicazioni del documento ProcurCompEU della Commissione), per assegnare a ciascuna stazione appaltante almeno 20 tecnici, ben pagati (utile qui la creazione di una categoria contrattuale di “super tecnici”), anche in relazione alle attività di progettazione svolte.

Fornire gratuitamente a queste stazioni appaltanti una piattaforma unificata (o un sistema che consenta l’interoperabilità delle piattaforme in uso) per la gestione digitale del contratto che comprenda non solo lo svolgimento della gara, ma la formazione di tutti gli atti relativi all’intera operazione economica messa in campo, la loro tracciabilità e la loro trasparenza, la trasmissione dei dati rilevanti per il monitoraggio all’unica Banca dati dei contratti pubblica gestita dall’Anac.

La materia di contratti pubblici è schiava di una cultura giuridico-formale, schizofrenica tra la produzione di regole sull’azione sovrabbondanti e inutili e la tentazione all’aggiramento di quelle stesse regole, mentre il cambio di passo necessario sta nell’adozione di un approccio organizzativo: se vuoi trasformare il sistema (questa sì una vera riforma!) devi agire sulle condizioni operative dei soggetti (le amministrazioni) che in esso operano.

Ma anche un approccio organizzativo fondato solo su regole calate dall’alto non basta; servono interventi attivi, che investano direttamente le amministrazioni, utilizzando al meglio i fondi del Next Generation Eu.

Se anche questa volta il nostro paese fallisce ci dovremo domandare se ciò dipenda solo da ritardi “culturali” o da un più preciso disegno: tenere le amministrazioni nell’attuale condizione di impoverimento e di asimmetria informativa per facilitare il perseguimento di interessi forti, che prosperano in un mercato non regolato e non governato.

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