Autostrade per l'Italia e Rete Unica Tlc; due grane per la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), il cui CdA è in scadenza. Per Autostrade (Aspi), dopo la tragedia del Ferragosto 2018 sul ponte Morandi, va in onda una strana telenovela; difficile definirne il genere, forse è sul surreale. Ognuno ci mette del suo, la società con i suoi azionisti di controllo che rifiutano ogni responsabilità per il disastro, quasi stessero passando di lì per caso; scaricano tutto sul management, colpevole d'aver attaccato l'asino dove voleva il medesimo.

Ci si mette anche la politica, prima con una regolazione settoriale troppo lasca e non controllando i concessionari poi, subito dopo il crollo, annunciando frettolosamente la revoca della concessione. Conforta in tale quadro la magistratura, ora scossa da convulsioni altrove; a Genova le indagini sono state condotte con efficacia, senza eccessi spettacolari.

Revocare o non revocare?

La revoca della concessione, senza elementi certi alla base, esporrebbe a risarcimenti enormi; proclamarla di furia è stato il proverbiale primo bottone che, mal allacciato, ha guastato il resto. Accantonata questa, s'è optato per trasferire Aspi alla sfera pubblica, scegliendo come veicolo Cdp, braccio finanziario statale partecipato al 13 per cento dalle fondazioni bancarie. A 33 mesi dalla sciagura essa sta ancora negoziando, insieme a Macquarie e Blackstone (fondi d'investimento esteri), l'acquisto dell'88 per cento di Aspi dalla holding quotata Atlantia (30 per cento Edizione, famiglia Benetton); al prezzo, di 9,1 miliardi, potrebbero accedere i Benetton, ma non altri soci di Atlantia. Essi minacciano azioni legali contro lo Stato che vorrebbe espropriarli a prezzo vile. Invitano piuttosto a scindere la partecipazione Aspi da Atlantia, ciò che darebbe direttamente ad ogni socio della seconda le azioni della prima; Cdp e soci potrebbero così comprare da Edizione il 26 per cento (0,88x0,3) di Aspi, che andrebbe poi quotata.

Nessuno discute il contratto di concessione, a parte l'opzione nucleare della revoca, che è meglio dimenticare: troppo azzardata a meno che dall'inchiesta penale escano forti elementi a supporto.

Ogni scelta comporta grossi rischi. Cdp e fondi, controllando Aspi, sfrutteranno l'attuale regolazione; partita da una tariffa-base esagerata, essa fonda il Piano economico e finanziario di Aspi. Così resta la rendita di posizione attuale, cambiano solo i beneficiari.

Modificare la convenzione

Andrebbe invece colto il momento per modificare radicalmente la convenzione. Sul Foglio, Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro offrono una soluzione che include una revisione del contratto di concessione. “Per la sua natura ibrida”, scrivono «Cdp porterebbe nel sistema il potere di cattura tipico del pubblico e la difesa puntuta dei privilegi monopolistici tipica del privato. Il peggiore dei mondi possibili».

Non sia allora Cdp a comprare, bensì lo Stato che, quanto al prezzo, deve rispettare i termini della concessione. Dopo l'acquisto, scrivono, essa andrebbe rivoluzionata, applicando alfine anche ad Aspi i principî messi a punto dall'Autorità dei Trasporti. Ciò fatto, e dato che la gestione delle concessioni non comporta grandi economie di scala, lo Stato dovrà mettere a gara tratti più piccoli, ma economicamente gestibili.

Alla fine del processo subirà una perdita, ma consegnerà ai cittadini un regime serio, meno costoso, meglio controllabile, anche grazie al minor rischio di cattura del regolatore da parte dei nuovi concessionari, assai meno potenti di Aspi.

La proposta trarrebbe anche d'impaccio Cdp e soci, altrimenti soggetti alle pressioni di chi, per non subire il “peggiore dei mondi possibili”, chiederà di rivedere la concessione. Scartato l'acquisto da Cdp, bisogna capire se costa meno l'opzione nucleare della revoca, o che lo Stato compri Aspi al prezzo basato sulla vigente concessione, per poi vendere in base alla nuova. La scelta parrebbe scontata; e chissà che le gare non diano risultati migliori di quelli ora ipotizzabili.

Rete troppo unica

Su Cdp incombono rischi significativi, però diversi, anche nel progetto di rete unica Tlc, ove essa giocherebbe due parti, in potenziale conflitto. Tale rete dovrebbe far capo ad AccessCo, destinata a nascere dalla fusione di Fiber Cop (ove Tim sta conferendo l'ultimo miglio della propria rete in rame), e Open Fiber, che sta stendendo una rete in fibra ottica fino alle case e vanta di averne già connesse quasi 10 milioni.

Cdp da un lato controlla Open Fiber, che dovrebbe affittare la rete agli operatori, dall'altro ha il 10 per cento di Tim, nel cui CdA siede il suo presidente, Giovanni Gorno Tempini; egli s'è impegnato a non partecipare alle decisioni sulla rete unica, ma è dubbio che ciò basti a eliminare i conflitti di Cdp nelle molte decisioni necessarie per realizzare il progetto.

L'arrivo al governo dell'ex capo di Vodafone, Vittorio Colao, ha ora cambiato le carte in tavola; esperto del settore, conscio delle gravi difficoltà di integrazione fra due sistemi che “non si parlano”, egli sfuma sul progetto di AccessCo, chiarendo che il governo bandirà gare aperte, senza predeterminare le tecnologie.

Il vero ostacolo alla rete unica sta nel fatto che Tim la vuole controllare. I valori in campo sembrano escludere tale possibilità, ma il punto vero, ora ben noto al governo, è un altro; la Commissione Ue non accetterà mai che la rete unica (o sostanzialmente tale) sia controllata da un singolo soggetto, tanto meno dal vecchio incumbent. E non è questo il tempo per prendere di petto la Commissione e la vice presidente Margrethe Vestager anche su tale tema.

Il nuovo contesto potrebbe mutare gli scenari in movimento in Open Fiber; qui Macquarie sta per rilevare da Enel la quota del 50 per cento, che in parte rivenderà a Cdp per consentirle il pieno controllo della società. Macquarie ha valutato Open Fiber 5,5 miliardi, cifra che ora potrebbe ritenere non più giustificata. Il fatto che essa stia anche negoziando l'acquisto di Aspi insieme a Cdp rischia di elevare al quadrato i conflitti d'interesse.

È difficile che il nuovo governo lasci “chiudere” su basi simili e senza radicali modifiche, due temi di tale momento, ancora in lavorazione fra mille ostacoli. È probabile che si appresti ad intervenire in tempi brevi su questi nodi, nonché sulla partenza, sempre rinviata, di Patrimonio Rilancio.

È questo un mastodonte da 44 miliardi, mal disegnato e qui più volte descritto; ieri il Mef ha stanziato solo i primi 3 miliardi. Una cosa è certa: è interesse di tutti salvaguardare, non snaturare, la storia e la missione di Cdp.

© Riproduzione riservata