Per una lunga stagione le grandi scelte della politica pubblica hanno “dimenticato” il contrasto alle disuguaglianze, dedicandogli al più una quota dei fondi europei per la coesione. Più recentemente, complice la pandemia che ha amplificato le tante e profonde disuguaglianze presenti nel paese, è aumentata, almeno nominalmente, la consapevolezza che la riduzione delle disuguaglianze è obiettivo primario della politica pubblica, motore e non conseguenza della crescita, come spesso sottolinea il presidente Sergio Mattarella.

È ora, dunque, che le disuguaglianze territoriali, e segnatamente la marginalizzazione delle aree interne, tornino al centro dell’attenzione, come previsto, del resto, nella Recovery and Resilience Facility europea, in cui l’obiettivo della “coesione sociale, economica e territoriale” orienta le “transizioni gemelle” (verde e digitale) nella direzione della riduzione delle disuguaglianze. A questo scopo, potendo contare sulle risorse del Pnrr, è indispensabile considerare il ruolo che possono giocare le università, in particolare quelle prossime alle aree interne.

Motori di sviluppo

Le aree che rispondono ai criteri della Strategia nazionale delle aree interne coprono il 60 per cento della superficie del paese, includono il 52 per cento dei comuni e il 22 per cento della popolazione. Sono aree in cui si concentrano con maggior frequenza e con esiti più spesso che altrove devastanti – certo non per un destino avverso – terremoti, frane, valanghe; aree che negli ultimi quarant’anni hanno vissuto un progressivo processo di marginalizzazione, perché lontane dai servizi fondamentali di istruzione, salute e mobilità, e che, con i loro trend sociali, economici e demografici negativi (-10 per cento della popolazione in 20 anni), rappresentano una delle maggiori opportunità mancate per lo sviluppo del paese e l’attuazione dell’articolo 3 della Costituzione.

In questo scenario, le università prossime alle aree interne possono diventare autentici “motori di sviluppo”: luoghi di formazione e ricerca, costituiscono il punto d’incontro fra i saperi “incorporati” in questi luoghi (ad esempio nel comparto agro-silvo-pastorale o nelle piccole imprese innovative, nelle filiere culturali o nei servizi) ed i saperi di frontiera dei grandi centri nazionali, europei o internazionali.

Cambiare politica universitaria

Sebbene alcune università svolgano significative attività in questa direzione, non emerge un’azione sistematica e una visione strategica; anche gli stimoli a un migliore coordinamento contenuti nelle “missioni” del Pnrr non sembra siano stati granché colti, se non nella forma.

Se l’intero sistema universitario nazionale può contribuire a promuovere lo sviluppo delle aree interne, sono le università ad esse più vicine ad avere importanti vantaggi potenziali: contiguità geografica e minore squilibrio “di potere” nelle relazioni con il territorio; sedimentazione non occasionale, nei ricercatori, di conoscenze e sensibilità relative alle opportunità e aspirazioni del territorio; diffusione informale, non programmata, attraverso giovani laureati e laureate, di conoscenza e innovazione.

Molti interventi potrebbero essere attuati per mettere le università in condizione di innescare processi di sviluppo non episodici e sostenibili nel tempo: un investimento massiccio nel reclutamento trasparente, aperto e basato sul merito di giovani ricercatori, assunti con contratti a tempo indeterminato; un’accentuata flessibilità ed interdisciplinarità nella costruzione di percorsi formativi di laurea, laurea magistrale e dottorato; un’incentivazione della mobilità dei docenti-ricercatori. Interventi che presuppongono un ripensamento strategico della politica universitaria e dello stesso Pnrr. Ma l’urgenza richiede un’azione immediata.

Attirare capitale umano

Per questo proponiamo un “intervento pilota”, di durata limitata, che, opportunamente valutato – un passo così “insolito” nella nostra prassi, refrattaria ad ogni saggio approccio sperimentale –, potrebbe indicare una strada per il futuro.

Si può immaginare un bando per programmi di 3-5 anni, aperto a tutte le università, singolarmente o in “reti”, a sostegno di ambiziosi e, al tempo stesso, fattibili programmi finalizzati a favorire, nei territori delle aree interne, magari partendo da quelli colpiti dagli eventi sismici del 2009 e 2016, sviluppo e giustizia sociale e ambientale, prevedendo una misura specificamente dedicata.

In coerenza con gli obiettivi del Pnrr, i campi d’azione potrebbero comprendere, ad esempio, misurarsi con i rischi del cambiamento climatico, con la difficoltà di assicurare servizi essenziali di qualità, con le opportunità aperte dalla transizione digitale, con la riduzione dei rischi di disastri naturali e dei danni derivanti dai sismi, con modalità di valorizzazione dei paesaggi e delle risorse culturali e naturali in armonia con l’ecosistema, con l’opportunità di offrire modi innovativi di residenzialità e di organizzazione della vita, con la costruzione di filiere agro-alimentari compatibili con l’ambiente.

L’intervento potrà essere finanziato attraverso una programmazione o riprogrammazione del Pnrr e del relativo Fondo complementare, ovvero ricorrendo a risorse comunitarie (European Structural and Investment Funds) o del Fondo nazionale di coesione.

A seguito della valutazione della fase sperimentale, da concludersi entro il tempo di vita degli interventi Pnrr, l’iniziativa potrebbe divenire “strutturale” e mettere in moto un circolo virtuoso – affinché tutte le università (e segnatamente quelle prossime alle aree interne) possano esplicare appieno il loro ruolo per l’attrazione e la ritenzione di capitale umano di talento e per la promozione di processi sostenibili di innovazione, rimuovendo così i fattori limitanti lo sviluppo delle aree interne.

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