Il successo del Pnrr dipende principalmente dalla riuscita di alcune grandi riforme orizzontali: pubblica amministrazione, giustizia e concorrenza, soprattutto. Queste riforme hanno molti avversari, sono difficili da scrivere e attuare, e mirano a cambiare i comportamenti di milioni di persone. Il rischio di fallire è elevato.

Affinché riescano, bisogna costruire sotto queste riforme un vasto consenso nella società. I partiti della coalizione di governo non sono in grado di farlo: è un compito che Mario Draghi può – e forse deve – assumersi.

Il successo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dipende principalmente dalla riuscita delle sue quattro riforme orizzontali: pubblica amministrazione, giustizia, concorrenza, e semplificazione normativa. Lo scrive il governo, lo dice ciò che sappiamo delle cause del declino dell’Italia.

Non sono riforme semplici, né da scrivere né da attuare. Sia perché il loro successo dipende dai comportamenti di milioni di cittadini e imprese, che potrebbero respingerle, sia perché esistono gruppi che beneficiano delle inefficienze che quelle riforme intendono aggredire, e possono influenzare il sistema politico. Non è scontato che quelle riforme riusciranno. Ciascuna di esse, del resto, ha predecessori altrettanto ambiziosi nell’ultimo trentennio, che hanno avuto risultati insoddisfacenti.

Partiamo dalla concorrenza

L’esempio più chiaro è la concorrenza, cruciale per l’efficienza economica. Le prime discussioni su una legge che promuovesse la concorrenza nei mercati interni risalgono a oltre sessant’anni fa. La legge fu fatta trent’anni dopo, nel 1990. Fu una buona legge, ritagliata su modelli europei, ma recenti ricerche pubblicate dalla Banca d’Italia suggeriscono che ebbe effetti modesti: l’intensità della concorrenza crebbe soprattutto dopo l’avvio del mercato unico europeo, nel 1993, e poi con l’introduzione dell’euro, ma restò debole, a paragone delle altre grandi economie europee.

La riforma prevista dal Pnrr è semplice: adottare la «legge annuale per il mercato e la concorrenza», ossia una revisione periodica delle regole su questa materia, che è obbligatoria dal 2009 ma è stata fatta solo nel 2017. Il Pnrr indica anche i contenuti della legge per il 2021, che paiono convincenti. Ma il problema è a monte.

Se passare da non avere alcuna legge a tutela della concorrenza ad averne una, buona, ebbe effetti modesti, è difficile pensare che i ritocchi che il Pnrr porterà avranno effetti maggiori.

E se è vero che, per promuovere la concorrenza, è opportuno avere una revisione annuale delle regole in materia, perché dovremmo pensare che il parlamento che violò quell’obbligo dieci volte su undici farà la legge annuale anche nel 2022, nel 2023, e oltre?

Non voglio sminuire l’importanza o l’utilità di questa riforma. Voglio dire che per irrobustire la concorrenza, e per diffondere il rispetto delle regole che la promuovono, bisogna anche persuadere i cittadini, le imprese e il parlamento del suo valore. E per questo la riforma scritta nel Pnrr non basta. Occorre la discussione pubblica, e probabilmente una battaglia di idee: perché la concorrenza è un tema controverso. Essa può garantire efficienza e innovazione, e tende a erodere la concentrazione del potere economico e le sue rendite, ma va regolata, va affiancata da un sistema di protezione sociale universalistico, e va esclusa dagli ambiti nei quali non la desideriamo. In altre parole, è difficile condurre i cittadini ad abbracciare il valore della concorrenza senza discutere il modello di società che desideriamo avere. Ossia senza avere in mente una visione del futuro dell’Italia.

Questo è ciò che più manca nel Pnrr, a mio parere. È una mancanza naturale, perché il Pnrr è stato scritto – di fretta – da un governo sostenuto da partiti che hanno visioni molto diverse, seppure spesso altrettanto vaghe. Ma è una mancanza grave, che minaccia anche le altre riforme, e soprattutto quelle della pubblica amministrazione e della giustizia.

Che fare? Di partiti della coalizione di governo non è lecito aspettarsi granché. Essi convivono allegramente con lo status quo, o mancano delle idee per cambiarlo, e sono tutti vulnerabili alla pressione degli interessi particolaristici che temono quelle tre riforme. Non è da essi che verranno le idee e la discussione pubblica capaci di costruire una visione convincente sul Pnrr. Agisca il presidente del consiglio, allora. Mario Draghi è un tecnocrate, si dice.

Ma svolge una funzione eminentemente politica, e ha la credibilità per parlare ai cittadini sopra la testa dei partiti che lo sostengono. Lo faccia, sfidando quei partiti e quegli interessi particolaristici: dedichi i prossimi mesi a spiegare ai cittadini il senso delle riforme, e le ragioni di efficienza e di giustizia che le sorreggono, e ascolti le risposte che riceverà dall’opinione pubblica e dalle organizzazioni della società civile.

Se riuscirà, avrà dato al Pnrr il miglior sostegno possibile: un largo consenso sociale, nato nella discussione pubblica, di fronte al quale gli avversari delle riforme si piegheranno.

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