Il Consiglio dei ministri ha approvato un nuovo decreto legge che segna una svolta nelle misure anti Covid-19, disponendo progressive riaperture e minori restrizioni. Le forze politiche hanno subito fatto a gara per intestarsi il merito. Ma di fatto, al di là di chi oggi vanta di aver chiesto allentamenti da settimane – ignorando forse che era fuori tempo la pretesa di riaprire prima ancora che si raccogliessero evidenze su andamento e impatti della vaccinazione, mentre la curva dei contagi continuava a salire – la linea è stata dettata da Mario Draghi. Basti pensare che quest’ultimo era stato irremovibile circa la data della cabina di regia, che qualche politico voleva si tenesse la settimana scorsa. E chi sosteneva che il presidente del Consiglio fosse succube del ministro della Salute – quando preferiva la strada della cautela – non solo dimostrava scarsa stima del premier, ma oggi deve pure riconoscere che era la strada giusta.

Le misure del nuovo decreto vanno dal progressivo spostamento del coprifuoco alle riaperture anticipate delle palestre, dai ristoranti al chiuso al riavvio dei parchi tematici due settimane prima del previsto. Ma, al di là di queste innovazioni, il decreto è importante perché segna il superamento dei 21 indicatori che dal mese di novembre – salvo alcuni periodi – hanno determinato la classificazione delle regioni in aree diverse, con restrizioni crescenti in relazione al livello di rischio delle varie aree. Durante i mesi scorsi il sistema ha mostrato lacune e criticità. Il meccanismo di elaborazione di dati – talora incompleti, imprecisi e temporalmente sfasati – non forniva certezza circa l’inserimento delle regioni nell’una o nell’altra fascia. Di conseguenza, veniva meno anche la teorica proporzionalità delle restrizioni rispetto all’effettiva situazione.

I colori delle regioni

Dunque, il cambio del sistema degli indicatori si rendeva necessario, e da tempo. Evidentemente, d’ora in avanti non si vuole correre il rischio di limitazioni determinate dai parametri finora utilizzati. Ma allora ci si chiede perché il sistema non sia stato modificato prima. Sul sito del governo si legge che «in considerazione dell’andamento della curva epidemiologica e dello stato di attuazione del piano vaccinale» il nuovo decreto «modifica i parametri di ingresso nelle “zone colorate”, secondo criteri proposti dal ministero della Salute, in modo che assumano principale rilievo l’incidenza dei contagi rispetto alla popolazione complessiva nonché il tasso di occupazione dei posti letto in area medica e in terapia intensiva».

Il provvedimento definisce tre nuove soglie per il cambio colore in base all’incidenza. Nei prossimi mesi si dovrà verificare la tenuta del nuovo sistema rispetto all’eventuale presenza di varianti del virus.

Per uniformare i dati rilevati in tutte le regioni, le regioni stesse hanno chiesto al governo, nei giorni scorsi, la fissazione di un numero minimo di tamponi da effettuare, proporzionato ai livelli di rischio legati all’incidenza, che corrispondono alle diverse fasce di colore. Il fatto che il passaggio a una zona di rischio più elevata, con maggiori restrizioni, sia legato anche a nuovi contagi può costituire un disincentivo all’effettuazione di tamponi: meno si cerca il virus, meno si trova. Quindi, una regione che facesse meno tamponi avrebbe maggiore probabilità di restare in una zona di minor rischio rispetto a un’altra che ne facesse di più.

Il green pass

Infine, si segnala la previsione che i partecipanti ai matrimoni debbano disporre di “green pass”. Al momento, è ancora in via di definizione sia la “certificazione verde” nazionale, introdotta dal decreto legge di inizio maggio, la quale dovrà tenere conto delle osservazioni critiche formulate dal Garante privacy; sia quella europea, il cui varo è ipotizzato per la seconda metà del mese di giugno. Quindi, per poter festeggiare le nozze bisognerà disporre di un’attestazione di avvenuta vaccinazione (ciclo completo) o di guarigione o un tampone negativo effettuato nelle 48 ore precedenti la cerimonia. Il possesso di questa certificazione era stato finora sancito solo al fine di vincolare gli spostamenti tra regioni con un colore diverso dal giallo, al di fuori dei motivi di lavoro, salute e necessità. Dunque, si tratta del primo caso in cui attività di tipo privato sono condizionate alla disponibilità di un documento che attesti l’immunizzazione o comunque l’assenza del virus. Solo in prosieguo si potrà accertare se il governo subordinerà a esso lo svolgimento anche di altre attività o l’accesso a determinati luoghi. Bisognerà verificare se l’adesione alla campagna vaccinale continuerà a essere elevata o se il “green pass” sarà usato in futuro come incentivo a vaccinarsi.

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