Siamo in Italia, il paese in cui il 1° maggio un giornalista di Mediaset intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – diciamo “intervista” ma il verbo è un pietoso eufemismo – e alla fine lo congeda con un surreale «buon lavoro».

Siamo in Italia, dunque, niente di più probabile che se dal palco del concerto del 1° maggio domenica pomeriggio si fosse alzato un collettivo, sonoro, intonato oppure anche meglio stonato “fuck Putin”, sonoro come quello dei Måneskin sul palco del Coachella festival – gesto «grandioso» lo ha definito la band ucraina che ha aperto la manifestazione musicale romana – alla fine lo spettacolo sarebbe stato giudicato dai soliti malmostosi banalotto, opportunista, chissà perché poi, e chissà cos’altro.

Sta di fatto che quel “fuck” domenica pomeriggio da piazza San Giovanni non si è sentito, non si è neanche sentito uno sportivo “forza Ucraina”, magari alla fine della Bella Ciao nella tostissima versione dell’Orchestraccia.

E dire che era iniziato bene, persino benissimo, il concerto tornato nella sua piazza dopo i due anni di remoto causa pandemia, e l’anno dopo delle polemiche scatenate da Fedez per un monologo antileghista sull’omofobia. Era iniziato bene con i Go A, il gruppo ucraino che ha sventolato i colori del proprio paese invaso e ha chiamato tutta la piazza a cantare Imagine di Lennon.

Parole composte, persino compostissime, quelle di Kateryna, la loro front woman: «Volevamo lanciare un messaggio di pace. È importante che si parli della guerra e della nostra terra. Per noi è davvero difficile essere qui sul palco mentre i nostri connazionali muoiono, ma la musica può davvero aiutare a rendere questo mondo migliore».

Bene l’inizio

Era iniziato bene anche con la maglietta a strisce gialle e blu di Ambra Angioini, che ricordava alle migliaia di ragazzi che lo slogan scelto dai sindacati, “al lavoro per la pace”, conteneva ovviamente un appello per il lavoro, ma anche una richiesta diretta, quella del cessate il fuoco da parte russa. Poi c’è stato lo scivolone della maglietta di Bugo, con i colori della federazione russa, la spiegano una svista comunque cromaticamente compensata dal guardaroba di Ambra.

La disarmista Rappresentante di lista ha lanciato un «vaffanculo alla guerra», la tenera e potente Ariete ha chiesto «pace e amore per tutti», Marco Mengoni ha cantato l’inno pacifista Blowing in the wind di Bob Dylan. “Pace” è stata parola certo pronunciata. Ci sono state le parole dei tre leader sindacali.

Ma insomma, da una intera generazione di rapper, ragazzi e ragazze, che hanno rovesciato sui loro fan canestri di parole su disagi più o meno intimi più o meno sociali, che si sono commossi per il ritorno lì, tutti insieme, era lecito aspettarsi, immaginarsi, presumere un po’ di rabbia in più per le immagini indigeribili che arrivano da un paese in guerra, in diretta, in contemporanea?

Rancore, poeta della sua generazione, ha recitato alla sua maniera la Ninna nanna contro la guerra di Trilussa, quella che i suoi genitori ricordano nella versione di Claudio Baglioni. Il vecchio leone del rock Enrico Ruggeri ha cantato Il disertore. Luca Barbarossa, signore della scuola romana, ha spiegato che «il contrario di guerra» forse non è pace ma «amore».

Ma sarà che la guerra è argomento sensibile per la maggioranza di governo, sarà che sta arrivando un nuovo invio di armi, sarà che scottatura delle polemiche dello scorso anno hanno segnato le regole d’ingaggio, forse spaventato la produzione, forse anche la Rai, sarà l’autocensura, sarà che anche fra i sindacati il tema del sostegno materiale all’Ucraina – leggasi invio degli armamenti – divide, ma alla fine il fuck non è arrivato. E l’occasione di mandare quel fuck in giro per il mondo è persa. Peccato.

La musica non ferma la guerra, ci ha ricordato con la sua ironia contro il pacifismo di maniera la solitaria gag di Lundini che ha cantato che «la guerra è brutta», con tanto di finta telefonata di Vladimir Putin che annuncia la pace. La musica non ferma la guerra, lo sapevamo. Saranno amarezze da boomer. Ma forse quei ragazzini belli e terribili che sono una parte importante della nuova leva della musica italiana, le potevano cantare, e le potevano suonare, per dirla con Trilussa, «a quel pazzo che comanna».

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